La prima volta che ho lasciato morire qualcuno

FYI.

This story is over 5 years old.

lavoro

La prima volta che ho lasciato morire qualcuno

"Qualche ora dopo, la donna ripiombò nella spirale che ero riuscito a ritardare di 28 giorni."

La prima volta che ho lasciato morire qualcuno avevo 27 anni. Tredici mesi dopo essere uscito dalla facoltà di medicina, al secondo anno di otto che avrei dovuto passare nel reparto di neurochirurgia di un ospedale della California del sud. Quel giorno ero di turno in terapia intensiva. Prima di iniziare a operare è obbligatorio passare qualche tempo ad assistere i pazienti con traumi cerebrali, ed è proprio quello che stavo facendo in quell'occasione. Era il primo mese di un anno in cui avrei passato 120 ore a settimana in ospedale, con tre turni da 36 ore a settimana (oggi cose del genere non esistono più).

Pubblicità

La "sala dormitorio" non poteva avere un nome più sbagliato. Non si dormiva mai. Ma al sesto piano c'era uno stanzino grosso quanto un armadio, con un letto a castello e un interfono, in cui potevi quantomeno stare in orizzontale mentre rispondevi alle chiamate che arrivavano una dopo l'altra. I beep del cercapersone erano diventati parte della mia routine, e lo stesso valeva per il terremoto che di tanto in tanto sembrava sul punto di capovolgere lo stanzino—il frastuono che stava a indicare l'arrivo di un elicottero e la successiva chiamata.

Erano le prime ore di martedì, più precisamente le tre. Il frastuono, l'elicottero, il cercapersone: Trauma rianimazione, tre min max. Significava che di lì a tre minuti mi sarei dovuto preparare a ricevere un paziente in punto di morte.

Dall'elicottero ci fecero sapere che si trattava di "34F s/p MVA, catatonica, pupilla dilatata, lacerazioni dello scalpo, traumi ortopedici multipli": tradotto, una donna di 34 anni vittima di un incidente stradale e in stato incosciente. Il cuore le batteva ancora, ma i soccorritori avevano dovuto pomparle l'aria nei polmoni attraverso 20 pressioni al minuto. Quando l'avevano estratta dalla macchina aveva diverse ossa rotte e il sangue che le usciva dalla testa. Inoltre, i puntini neri nei suoi occhi azzurri erano di misure diverse: le pupille dilatate erano segno di un trauma cranico e di eccessiva pressione intracranica. Di conseguenza, il verdetto era stato unanime: neuro.

Pubblicità

Stanco ma vigile, scesi le scale fino al secndo piano. La squadra era già pronta: chirurghi, inferimere, assistenti, studenti. I paramedici spinsero la barella tra le due grosse porte, e tutti ci raccogliemmo intorno a essa, ognuno col proprio ruolo predefinito e con movimenti estremamente cadenzati. L'anestesista le inserì un tubicino in bocca e nei polmoni affinché il respiratore potesse pompare l'aria, perché dal cervello non arrivava nessun comando. Le lastre confermarono le fratture, nessuna delle quali mortale. Ma la TAC rivelava un danno cerebrale che richiedeva intervento immediato. Lo scontro con l'auto aveva prodotto uno scontro altrettanto violento tra il cervello e la calotta cranica—e, come ogni altro tessuto, anche quello cerebrale si gonfia.

Dato che le ossa non si adattano di pari passo, dovevo dare un po' di spazio al cervello perché non si strozzasse. Innestai una punta su un trapano a mano e la strinsi con una brugola, poi con un'incisione mi feci strada fino al cranio per procedere al drenaggio. La mano sinistra teneva ben saldo il trapano, la destra governava la manovella. Praticato il foto, inserii un catetere facendolo penetrare per sette centimetri attraverso il lobo frontale e nei misteriosi fluidi all'interno del suo cervello. La pressione era già così alta che dal catetere schizzò fuori del liquido. Non c'era bisogno di un'operazione, ma la terapia intensiva era richiesta. Due ore dopo l'arrivo in elicottero, respiratore e catetere avevano fermato la corsa della donna verso la morte. Secondo le nostre stime, questi passi e i successivi le avrebbero dato il 20 percento di possibilità di sopravvivere.

Pubblicità

Il suo caso si prese tutte le mie quattro settimane successive. Usando mannitolo e altri diuretici cercai di drenare il pantano del suo tessuto cerebrale per governare il trauma. Quando le vene delle braccia erano troppo sottili per gestire il volume di farmaci, foravo quelle del collo per farci passare dei cateteri. Quando i polmoni decisero di collassare, mi feci spazio tra le costole e innestai una pompa per aspirare. I rigonfiamenti si ripresentavano ogni 20 minuti, e quando succedeva l'infermiera della terapia intensiva ed io cercavamo di scandire la somministrazione dei farmaci—diuretici, sedativi e via dicendo—nella speranza di evitare che le ondate di pressione intracranica raggiungessero il culmine. La precarietà della sua condizione era tale che con l'infermiera trascorrevamo al suo fianco ogni singola notte.

Ventisei giorni dopo il suo arrivo in ospedale, la TAC mostrò qualcosa che non poteva essere ignorato—qualcosa per cui la chirurgia non avrà forse mai una risposta. Una parte del suo cervello era priva di flusso sanguigno e presentava il colore grigio scuro dei tessuti necrotizzanti. Lesione del tronco encefalico. Il tronco encefalico è quella parte del cervello assimilabile al gambo del fungo, il nostro cervello rettiliano, il centro di controllo delle nostre funzioni automatiche. Ci permette di respirare quando dormiamo e di aprire gli occhi quando ci svegliamo. Il cervello pensante (il lobo frontale) non è niente senza di lui, e quando il tronco encefalico viene danneggiato le macchine sono inutili. Il paziente non può respirare. Né può svegliarsi. Con un problema del genere, persino i miracoli non possono niente.

Pubblicità

La complessità di un evento del genere è tale che nemmeno i medici a volte possono afferrarla del tutto, figuriamoci i familiari. Nel corso di quelle quattro settimane avevo imparato a conoscere la famiglia, ma l'atmosfera di quell'incontro in cui li privai di ogni speranza è difficile da rendere a parole. In momenti di crisi la gente non capisce le tue parole—capisce l'energia. Non mi compresero del tutto, ma si fidavano di me. Il giorno successivo mi chiesero di guidarli attraverso il processo attraverso cui l'avremmo lasciata morire.

Prima del loro ultimo saluto feci il possibile perché la donna somigliasse all'immagine che i parenti avevano di lei. Chiesi all'infermiera di aiutarmi. Le infermiere della terapia intensiva sapevano meglio di chiunque altro quante ne avessi provate per salvarla, e sapevano che avevo fallito. Le tolsi i cateteri e i tubicini dal collo, dal petto e dal cervello. Per me, tutti quegli aggeggi rappresentavano le vestigia di un paracadute lacero. Lasciai solo un tubicino, quello della morfina che portava al braccio. Spensi il respiratore ed estrassi il tubo dalla gola. L'infermiera le sistemò un'ultima volta i capelli e poi chiamammo i familiari. Qualche ora dopo, la donna ripiombò nella spirale che ero riuscito a ritardare di 28 giorni.

Non ci eravamo conosciuti, non nel senso convenzionale. Non l'avevo vista da cosciente. Tutti i miei tentativi di riportarla in vita le avevano lasciato delle ferite sul corpo. A me restavano le ferite emotive. Alla fine di quell'anno avevo lasciato morire 24 persone. Ogni famiglia ha riconosciuto i miei sforzi; molti mi hanno invitato al funerale, e una volta ho accettato. Ma lei è stata la prima. Vent'anni e migliaia di pazienti dopo penso ancora a lei.

Per prenderti cura di chi è vicino alla morte devi imparare a convivere con la morte stessa. Io non ci sono ancora riuscito. Ma le cicatrici sono dure.

Rahul Jandial è un neurochirurgo. Seguilo su Twitter e Instagram, e visita il suo sito.

Per vedere altre illustrazioni di Corey Brickley, visita il suo sito e seguilo su Instagram.