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I miei genitori sapevano che sarebbero morti prima dei miei nove anni

Ed è così che mi hanno preparato a vivere senza di loro.
Sydni Dunn e i genitori. Tutte le foto per gentile concessione dell'autrice.

Il cinema era vuoto tranne che per noi. Mentre scorrevano i titoli di coda, ci siamo messe a giocare: a ballare nelle poltrone, a fare le ruote per i corridoi, a ridere finché non si sono accese le luci e sono arrivati gli addetti a pulire.

Avrei dovuto essere a scuola, ma mia madre aveva insistito perché sfruttassimo lo spettacolo della mattina a un dollaro. Facevano La piccola principessa, uno dei miei film preferiti. Come me, la protagonista non aveva il padre. Alla fine suo padre torna; il mio non è mai tornato.

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Forse è per quello che mia madre aveva improvvisato quella scenetta, per distogliermi dalla trama. O forse voleva solo che ci divertissimo. Comunque, sono felice che l'abbia fatto: è uno dei ricordi più felici che ho, e quel giorno è così vivido nella mia testa che sento ancora l'odore dei popcorn e il mal di pancia a furia di risate.

Non avevamo smesso di ridere fino alla macchina. Avevamo messo la cintura e mia madre aveva acceso il motore, ma eravamo rimaste ferme. Mia madre si era voltata a guardarmi, nel mio seggiolino sul sedile posteriore, e mi aveva detto calma: "Sydni, se mai alla mamma dovesse succedere qualcosa, se mamma dovesse andare a vivere in paradiso con papà, tu sarai al sicuro."

Aveva continuato: mi sarei trasferita dal Texas alla Louisiana a vivere con sua sorella e i miei due cugini più grandi. Avrei avuto un fratello e una sorella con cui giocare. Avrei visto i nonni, che vivevano nella stessa città, tutte le volte che volevo. Sarebbe venuto anche Charlie, il mio cane. Che ne pensavo? Avevo domande?

Non ne avevo, ero certa che non sarebbe successo. Certo, lei stava spesso male, ma non stava morendo. Dopotutto, era la donna che solo qualche istante prima aveva danzato in punta di piedi per il cinema.

Negli anni successivi abbiamo ripetuto quella conversazione molte altre volte—mentre mi portava a casa dal softball, durante le pubblicità quando guardavamo la televisione, quando montavamo le rotaie del trenino che tiravamo fuori a Natale. Ne parlavamo nella sala d'attesa del suo medico, e a casa quando era troppo debole per alzarsi dal pavimento del bagno, e in ospedale quando mi rannicchiavo a letto con lei, circondata dai fili e dal beep dei monitor. E ne avrei parlato un'ultima volta con la mia famiglia una mattina di aprile dopo che mi avevano dato la notizia che mia madre era morta serena, con i suoi cari vicini, quella notte stessa.

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Niente può preparare una bambina alla morte di un genitore. Niente può prepararla a essere orfana a otto anni. Ma mia madre, che aveva visto il suo fidanzatino del liceo e il suo stesso padre morire di AIDS, aveva fatto il possibile per darmi gli strumenti per affrontare i giorni, mesi e anni dopo la loro morte.

Invece che proteggermi dalla tragedia, mia madre mi aveva incoraggiato a esplorarla. Quando mio padre era morto qualche mese prima del mio quarto compleanno, mi aveva portato al suo funerale, mi aveva permesso di arrampicarmi sull'inginocchiatoio di fianco al feretro per guardare il morto. Mi aveva spiegato, in modo che potessi capire, che non si sarebbe più svegliato.

Anche se mio padre non era più fisicamente con noi, mia madre l'aveva incorporato nella nostra quotidianità. A papà sarebbe piaciuta la mia felpa nuova di Titti. Papà sarebbe stato orgoglioso di quanto ero intelligente. Papà era l'artista che aveva dipinto quel tramonto rosa che guardavamo ogni sera. Lei mi aveva insegnato che parlarne era una parte 'sana' dell'elaborazione del lutto e mi aveva assicurato che il fatto che io provassi tristezza e volessi stare sola era non solo giustificato, ma normale.

Allo stesso tempo stimolava la mia indipendenza: ero io che sceglievo come vestirmi. Che mettevo in ordine di priorità le mie attività doposcuola. Aveva piena fiducia che avrei chiamato il 911 in caso si sentisse male. Il suo era per me un esempio di forza e autostima. Io ero forte e coraggiosa. Potevo fare qualsiasi cosa. Eravamo noi contro tutti.

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E, cosa ancora più importante, aveva dato vita a memorie che le sarebbero sopravvissute. Noi che ruotiamo nelle gigantesche tazze da tè di Disney World. Noi che battiamo con la scopa sul soffitto per far tacere il vicino che prova "My Heart Will Go On" all'organo. Noi che riempiamo vassoi interi di dolci in caffetteria.

Altri ricordi sarebbero riaffiorati col tempo: quando ho trovato una scatola di bigliettini prefabbricati durante il trasloco in Louisiana, per esempio, ho scoperto che dietro l'ammiratore segreto che ci riempiva la cassetta delle lettere c'era mia mamma. Ho scoperto foto di mia madre che ride con in mano uno stencil a forma di zampa e un barattolo di borotalco per fare le impronte del coniglietto che a Pasqua ci lasciava in casa le uova. Aveva riempito album di foto della nostra vita, ciascuna con il luogo e la data.

La mia famiglia ha continuato questo percorso quando mia madre non ha più potuto farlo. Mi hanno lasciato scegliere la sua bara bianca e le rose rosse con cui coprirla, e mi hanno lasciato compilare la colonna sonora con Celine Dion e le ballate degli N*SYNC per il funerale. Mi raccontavano storie dell'infanzia dei miei genitori, festeggiavamo i loro compleanni e anniversari, e lasciavamo le loro sedie vuote quando pranzavamo, in vacanza. Sono stati sinceri con me sulle cause della morte dei miei genitori quando all'improvviso mi sono data all'attivismo contro l'AIDS al liceo, hanno compreso la mia rabbia per essere stata l'ultima a sapere la verità, e hanno partecipato a tutti gli eventi che ho organizzato in seguito per informare ed educare in materia.

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La morte dei miei genitori è parte di quello che sono. Divido la mia vita in due parti: prima e dopo. Le cose che non posso controllare mi mettono ansia, e il dolore mi perseguita anche nonostante la felicità di traguardi come le lauree, i lavori nuovi, il matrimonio. Ma gli sforzi di mia madre e della mia famiglia mi hanno insegnato ad affrontare le inevitabili sfide della vita fin da piccola, e mi hanno reso la donna che sono oggi.

Oggi ho la stessa età che aveva mia madre quando ha scoperto di aspettare me—la stessa età di quando ha scoperto sulla sua pelle cosa significa essere malati. Ho la stessa età che aveva lei quando ha cominciato a pianificare contemporaneamente l'inizio e la fine della fase successiva della sua vita.

Oggi che penso di avere figli anche io, non riesco a capacitarmi della forza che ha avuto nel farlo. Non riesco a immaginare di avere una malattia di cui non si conosce la cura, e di cui non posso parlare. Non riesco a immaginare come sia potuto succedere.

Quello che posso fare è far mie le lezioni sulla vita e l'amore che mi ha insegnato lei, e un giorno metterle in campo anch'io. Quando diventerò madre, anch'io farò tutto il possibile per dare a mia figlia una vita felice e sicura. Per farla sentire importante. E non rinuncerò mai a ballare con lei in un cinema vuoto.

Questo articolo è comparso originariamente su Tonic.

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