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Musica

Il compositore che ha fatto suonare i pianoforti da soli

Hauschka modifica pianoforti, ci nasconde dentro oggetti e scrive così canzoni corali, su un futuro incerto e preoccupante.

Hauschka è un compositore e pianista tedesco. Nel 2010, ha contribuito a una performance audiovisiva dal nome Ghost Piano: durante le varie performance, delle immagini venivano proiettate su un pianoforte bianco mentre lui, seduto allo sgabello, sembrava suonarlo. Ma le proiezioni sono cose complicate, interrotte dalle ombre degli oggetti e delle persone. Hauschka sarebbe dovuto svanire, per permettere al pubblico di vedere le immagini proiettate sul piano per intero. E Hauschka, infatti, non era lì, su quello sgabello: era in un'altra stanza, a suonare un altro pianoforte, fuori dal campo visivo dei presenti. La sua presenza era solo un'illusione ottica, decisamente spettrale. Il "pianoforte fantasma", coerentemente con il suo nome, si stava suonando da solo.  I pianoforti meccanici, o pianole, ebbero il loro picco di popolarità a metà degli anni Venti, ma divennero preso obsoleti con lo svilupparsi di nuove tecnologie di registrazione. Funzionano grazie a un meccanismo pneumatico o elettro-meccanico che legge schede perforate di carta contenenti spartiti pre-programmati, in modo che il pianoforte possa eseguirli autonomamente—un modo piuttosto insolito, e non del tutto pratico, per ascoltare musica. L'utilità dei pianoforti meccanici contemporanei, però, va oltre al mero playback. Per Hauschka, nato Volker Bertelmann, i pianoforti meccanici—equipaggiati in modo da poter leggere i MIDI—sono la base su cui si fonda la sua idea di one man band.  "Era come se questo fantasma, questo piano i cui tasti si premono da soli, potesse essere la mia mente," mi dice Bertelmann al telefono da Berlino. "Decisi che non avrei preso degli strumentisti ma che avrei usato i pianoforti per creare i vari suoni, li avrei fatti suonare come una batteria." Hauschka usa inoltre la tecnica del pianoforte preparato, ideata da John Cage: in pratica si tratta di mettere oggetti trovati in giro all'interno di un pianoforte in modo da cambiare il timbro delle corde e farle quindi suonare come altri strumenti.

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"La prima volta che ho sperimentato con cose simili fu ai tempi di Substantial, il mio primo album," mi dice. "Era il 2004 e vivevo in Galles. Stavo provando a creare suoni che sembrassero elettronici con strumenti analogici, volevo liberarmi dal portatile quando ero sul palco. Non volevo suonare il piano e lavorare a un computer contemporaneamente: quando sono davanti a uno schermo mi sento sempre come se fossi al lavoro. Quindi cominciai a mettere cose tra i martelletti e le corde del piano, tipo dei filtri ottici colorati e pezzi della confezione di una torta, e così creai il mio primo charleston al pianoforte." Il pianoforte è già uno strumento-campione della polifonia—armonia, melodia e contrappunto possono venire eseguiti contemporaneamente, e può essere suonato anche a quattro, a sei mani. In questo modo lo diventava ancor di più, qualificandosi come un device interamente personalizzabile, una sorta di surrogato analogico di un sintetizzatore. "Mentre lavoravo ho immaginato che potessi quindi creare suoni diversi per ogni tasto, e così ho deciso di creare diverse preparazioni per venti, venticinque tasti senza però perdere la qualità del suono complessivo." Lungo la sua carriera Bertelmann ha fatto qualche concerto usando pianoforti meccanici preparati, ma la sua idea di usarli per creare una one man band non si è manifestata realmente fino all'anno scorso, in cui è stato eccezionalmente attivo: ha composto quattro colonne sonore (tra cui quella per Lion, nominata all'oscar e scritta assieme a Dustin O'Halloran), due composizioni orchestrali, e ha completato le lavorazioni di un album solista, What If, in cui ha finalmente trovato un punto d'incontro tra le sue due fissazioni strumentistiche, i pianoforti fantasma e quelli preparati.  Per What If Berkelmann ha composto musica per uno Yamaha Disklavier, inserendoci le sue composizioni in MIDI e registrando poi ogni singolo output. "Il che mi ha permesso di lavorare su ogni singolo tema o motivo separatamente dalle preparazioni, e di capire come tutto poteva essere messo assieme," mi spiega. "È stato un processo molto interessante. Di solito suono, qua stavo praticamente ascoltando un'orchestra." Con le mani libere di adattare e modificare le sue preparazioni, Hauschka ha potuto quindi mischiare e accoppiare diverse trame sonore, suonare melodie aggiuntive e fornire supporto armonico ai suoi pianoforti fantasma. Ma la maggior parte del lato esecutivo è stata dei pianoforti meccanici. "Ho aggiunto un po' di colore qua e là—ogni tanto ho suonato un pezzo sopra a quello che facevano. Ma 'Constant Growth Fails', per esempio, è solo pianoforte meccanico e nient'altro."

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Il video di "Constant Growth Fails." "Constant Growth Fails," pubblicata come primo singolo da What If, è stata presentata assieme a un edificante video dietro le quinte, oltre che da un video diretto da Daniel Gray, le cui animazioni distopiche suggeriscono l'acuto framework concettuale dietro al disco.  Gray ci mostra una mannaia e altri oggetti taglienti mentre perforano oggetti irriconoscibili, ingranditi troppo per essere identificati. A livello musicale, "Constant Growth" è un pezzo dalla grande verve. Diversi battiti nascono dal nulla e si incrociano, stabilendo delle fondamenta complesse su cui possono poi librarsi diverse melodie. Al loro arrivo i vari pezzi degli oggetti i tagliati vengono cuciti tra di loro, e nella rivelazione finale ci vengono mostrati oggetti quotidiani uniti a piccoli animali—una bambola con un pesce, una macchinina di legno con uno scoiattolo, una ciabatta con un serpente. Potrebbe essere un commento sulle conseguenze innaturali, persino imprevedibili di una crescita costante—sfortunatamente, un principio cardine di un mondo governato dall'industrializzazione. Il titolo dell'album gioca con queste idee, ed è pensato per essere messo prima dei titoli di ogni pezzo per creare delle domande. Ad esempio: "E se… la crescita costante fallisse?" "Volevo solo porre queste domande che compaiono in modo naturale se pensi a come il mondo e la razza umana si stanno sviluppando," mi spiega Hauschka. "Ci sono problemi ecologici e climatici, ma nessuno li percepisce come qualcosa di urgente."

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L'urgenza è il tema principale di What If, e la sua esecuzione è resa possibile dalle capacità bioniche del pianoforte meccanico. Le macchine possono suonare più velocemente e precisamente delle persone, e la velocità scomposta di un suono automatico aggiunge un'aria di impellenza al tono del disco. "Le cose stanno cambiando, è ovvio," nota Bertelmann. "Volevo trovare un legame personale con quelle domande che vorrei venissero in mente alle persone, quando si mettono a pensare alle cose del mondo. E se non riuscissi a trovare acqua? E se la crescita costante fallisse? Dove andremmo a finire?"

Bertelmann usa un processo associativo ogni volta che ha bisogno di attingere dal suo subconscio. Tiene due cartelle piene di appunti, una per i temi e una per la musica, e accoppia testi e canzoni tramite correlazione—"Constant Growth" e "linee di pianoforte frettolose", per esempio, o "piccole gocce di pianoforte su uno sfondo polveroso ed elettrico" e "I Can't Find Water." What If proietta le osservazioni di Bertelmann in un futuro prossimo, a trent'anni da ora. È un album complementare, in un certo senso, al suo Abandoned City—lode alle città disabitate, uscito nel 2014. Entrambi sono infatti dischi che contengono visioni di un futuro teorico. C'è un sentimento di cui Hauschka ha parlato che mi ha colpito particolarmente, condiviso in un'intervista pubblicata poco prima della pubblicazione di quell'album: Bertelmann suggeriva che la sua scrittura si esplicasse come un equilibrio tra malinconia e speranza.

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"Direi che What If è uno sviluppo, sposta la mia attenzione dal mondo interiore a quello esteriore, e incorpora una visione del futuro," mi dice quando gli chiedo di quest'idea. "Anche se le città abbandonate hanno un passato, il loro futuro è piantato dentro di loro perché rappresentano uno stato-zero. Non sappiamo che ne sarà di loro." Oggi non è inconcepibile, dato il torbido clima politico contemporaneo, immaginare un mondo a trent'anni da ora che assomiglia a una città abbandonata, pieno di pianoforti fantasma e nessuno a poterli suonare. Bertelmann suggerisce questa possibilità, e parla di una catastrofe che potrebbe riportarci tutti a un punto d'inizio: "Penso che la domanda principale da porsi, mentre guardiamo come tutto si sviluppa, sia: dove possiamo trovare speranza? Personalmente, credo sia generata dalla vita, dalla condivisione della vita con altri esseri umani. È lì che io la trovo." Ed è questo, il nucleo del nuovo disco di Hauschka, e della sua opera tutta: la speranza e la bellezza nata dalle opportunità di condividere un'esperienza di vita. "Voglio svegliarmi al mattino e sapere che incontrerò qualcuno, avrò qualcosa da fare, andare da qualche parte," mi dice. "È per questo che faccio musica. Provo a generare un ambiente che faccia pensare la gente, che crei fantasie, che generi creatività—tutte cose che ti fanno venire voglia di muoverti, di agire."

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