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Non votare non serve a nulla

Non votare non è mai servito a niente, in una misura leggermente maggiore di quanto anche votare sia inutile.

L'ultima settimana di campagna elettorale si sta rapidamente chiudendo: un'ecatombe fatta di colpi bassi, il cui tratto peggiore è stato, senza dubbio, questo andamento ripetitivo, più ipnotico di una partita a ping pong tra macchine incapaci di perdere, uno stato di cose e una deriva dei fatti da cui fuggire non è possibile né giusto. Eppure è assolutamente legittimo lamentare quanto male ci stiamo facendo ad ascoltare, subire e prendere attivamente parte al dibattito-qualcosa in cui ci stiamo cimentando non tanto per uno stupido senso del dovere civico, ma perché abbiamo per le mani dei rischi sociali talmente tangibili che rendono più che mai evidente quanto sorvolare le questioni politiche sia irresponsabile e stupido.

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Lamentarsi no, non è stupido, perché non lo è sentire ancora una volta lo stesso senso di rigetto per un processo democratico ogni giorno più ingolfato e putrefatto. Senza scadere con arroganza nel qualunquismo-ormai un insulto più banale di "fascista"-ancora una volta mi si riconferma davanti agli occhi una grossissima verità, ovvero che è proprio il fatto di avere una consapevolezza politica troppo profonda a spingere a schivare le urne. Eppure qualcosa stavolta è cambiato: alle elezioni 2013 il fronte del 'col cazzo che voto' si presenterà più incasinato che mai.

Intendiamoci: non votare non è mai servito a niente, in una misura leggermente maggiore di quanto anche votare sia inutile. Rimane una scelta etica, una scelta di consapevolezza e, soprattutto, un rifiuto di tutti i presupposti sociali. Non "serve", ma ha senso se lo accompagni quotidianamente con un tipo di pratica politica utile a costruire delle alternative. Non inizierò a incitare a una poco probabile rivoluzione proprio i lettori di VICE, con qualche banner che mi fissa impietoso, ma penso che il rifiuto quotidiano di basare la propria mentalità su presupposti alienanti sia utile, se non a fare la differenza, quantomeno a respirare meglio. Eppure davvero, non "serve", nemmeno come catalizzatore di quel rifiuto, perché, almeno in questo Paese, il sistema elettorale fa sempre in modo che il vuoto creatosi fornisca la scusa dell'urgenza di fare un governo, cosa che invece SERVE. Poco da fare: non ci sono mai stati i presupposti perché si deattivino questi meccanismi, dall'interno o dall'esterno che sia.

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Niente di nuovo, appunto. Ma a questo giro le cose si sono fatte complicate sia nella forma che nella sostanza. La prima ragione è spicciola, e riguarda i suddetti rischi sociali tangibili: non tanto il collasso dietro l'angolo; quello non ce lo troveremo mai di fronte perché ci spetta semmai un lunghissimo coma. In sospensione ci sono un capitalismo neanche più in grado di sostenere se stesso, una democrazia insignificante, un apparato statale gonfio di pus fino all'orlo. Ma l'assurdità di questi tempi sta proprio nel fatto che quanto ho appena scritto non sembra più un rantolo da comunistoide in loop, quanto i fatti concreti della realtà che viviamo tutti i giorni. È su questa evidenza che il M5S, come altri movimenti minori, ha costruito un programma politico, di fatto provocando una scissione. Perché un conto è dire "non voto," un conto "non vi voto"; c'è una chilometrica differenza di merito che non va ignorata.

Ed ecco che, appunto, dal rifiuto si passa alla "necessità di rinnovamento", che si sparge culturalmente in tutto il paese e diventa un attrezzo con cui pararsi bellamente il culo. Ecco la "rottamazione", in politica come al festival di Sanremo, una maschera di fuffa che appaga la nostra intima natura di moderati. Ecco "Moderati": lo spauracchio di tutte le coalizioni, il mucchione di elettori da non scontentare. Ed ecco quindi la grande rivelazione per cui i tanto temuti radicalissimissimi grillini sono dei moderati anche loro. Si basano su una struttura tutt'altro che orizzontale, ma diagonale: quella di un uomo solo al comando che ficca la vanga in mezzo alla "gente comune" per spalarsela tutta addosso, e invece di ridiscutere le istituzioni, ne costruiscono delle altre.

Ma all'esterno cosa c'è? Esiste davvero un movimento di protesta che si basi su idee e linguaggi che non siano del tutto mutuati da ideologie arcaiche? La risposta è ovviamente no. E qui crollano tutte le condizioni poste prima sulla funzionalità dell'astensione, e arriva la parte rancorosa e lacrimevole del pezzo in cui mi lamento di come sia proprio la mia generazione ad avere clamorosamente fallito sotto questo punto di vista, proprio la generazione più smaliziata-anzi, post-smaliziata-e dotata di un accesso all'informazione spaventoso.

È forse questo eccesso di consapevolezza a frenarci davvero? È probabile che ci siamo fin troppo resi conto di quanto il significato politico di ogni nostro gesto possa avere tante di quelle sfaccettature da infrangersi nell'inutile più inutile. Ci vogliono linguaggi nuovi e idee nuove, oltre il concetto di controcultura, in un'epoca in cui la cultura ufficiale, di fatto, non esiste più.

Di fronte a questo, come ci si dovrebbe comportare? Non lo so. Non ne ho la più pallida idea, e sinceramente mi fa un'angoscia tremenda constatare ancora una volta che se non voto, in realtà, è solo e unicamente perché un pensiero votato al nichilismo totale e rovinato mi sembra più intelligente di tutti gli altri possibili.

Segui Francesco su Twitter: @FBirsaNON