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Da studentessa sono stata violentata più volte—e non ne ho mai parlato

"Quando sono riuscita a strisciare fino allo specchio, la situazione era peggio di quello che mi aspettavo: ero piena di sangue rappreso, avevo gli occhi neri, un labbro gonfio, un taglio sul mento e il naso rotto. Non capivo niente. Non ho pianto."
Illustrazione di Alisha Sofia.

Questo articolo è tratto da Broadly.

Sono stata stuprata. Non una sola volta, non di recente. Non ne ho mai parlato fino ad ora. E adesso che sono pronta per raccontare, so cosa succederà. So che il mio corpo verrà messo sotto processo. Qualcuno chiederà: cosa indossava? Come camminava? Ha provocato i suoi aggressori? Era seducente?

Ma tenendo segrete le mie storie ho protetto i miei stupratori, non me stessa né le altre vittime. Cercando di dimenticare il tutto, non ho fatto un favore a nessuno—solo a chi mi ha causato dolore e sofferenza. Credendo che le mie storie riguardassero solo me, invece che molte altre, ho impedito a me stessa di contribuire ad affrontare un problema.

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Il nostro rifiuto collettivo di parlare del tema ha delle conseguenze: donne e uomini che soffrono in un silenzio autoimposto, e che hanno bisogno di sapere che non sono soli. Ecco le mie storie.

UNO

Quando Stephen* mi ha detto di essere stato accusato di stupro, il processo si era già concluso. Tutti le persone coinvolte nel caso—Stephen che è stato il mio ragazzo per tutti gli anni delle superiori, il suo migliore amico e sospetto complice Alec, e la mia amica d'infanzia Mary, che erano accusati di aver stuprato—per motivi legali non potevano parlare dell'accusa quando ancora il caso era aperto. O almeno, questo è quello che Stephen mi ha detto.

Era un assolato pomeriggio di agosto, circa dieci anni fa. Stavamo andando in macchina da Orange County a San Francisco, i miei genitori davanti, io e Stephen dietro. Stephen mi aveva già tradita molte volte, e per tutto il fine settimana era stato schivo, nervoso; ho passato la maggior parte del tragitto a provocarlo, come fanno gli adolescenti, per cercare di capire cosa mi stesse nascondendo. Da settimane si comportava in modo strano. Quando un nostro amico in comune, parlando di tutt'altro, aveva detto che aveva smesso da un po' di giocare a basket ero rimasta interdetta, visto che cinque volte a settimana continuava a portarsi la sua borsa da palestra per "gli allenamenti." Per 50 silenziosi minuti abbiamo guardato fuori dai rispettivi finestrini. Sarebbe indiscutibilmente scoppiata una litigata feroce appena ci fossimo trovati da soli.

Con Stephen, ogni chiarimento era difficile; ogni litigata era incastrata in uno spazio temporale minimo—non potevano andare avanti più di tanto, perché lui a una certa sosteneva di dover scappare agli allenamenti. Ma quello che ho capito è che non c'era in ballo solo un tradimento: Mary, una ragazza che conosco da quando andavo all'asilo, aveva accusato Stephen e Alec di averla stuprata la notte dell'ultimo dell'anno. Sei mesi prima. Il processo era terminato. I ragazzi avevano vinto.

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Non è che io abbia immediatamente creduto alla versione di Mary, né ho cercato di raccogliere più dettagli di quelli che lui mi stava dicendo di sua volontà. Per me era abbastanza che Stephen mi avesse tenuto all'oscuro del processo per sei mesi. Era dura avere una relazione con una persona di cui mi fidavo a malapena. Ho lasciato definitivamente Stephen poco dopo.

Non ho chiamato Mary. Erano passati sei mesi—cosa avrei potuto dire? Pensava che fossi a conoscenza del processo e che ciononostante avessi deciso di rimanere con Stephen? O, piuttosto, pensava che fossi un'idiota per non aver mai scoperto niente? Mi vergognavo, mi sentivo in colpa. Per i sei mesi precedenti mi era sembrata in difficoltà: era stata bocciata in alcuni esami, l'avevano ammonita, frequentava un gruppo di skater in cui giravano droghe. Ho impiegato anni per riuscire a parlarle di quanto era successo, e anche allora tutto quello che sono riuscita a dire è stato che sapevo che lei diceva la verità. Cos'altro c'era da aggiungere?

A volte, ancora oggi che sono passati dieci anni, sento una fitta di senso di colpa per il ruolo che ho avuto. La sera dell'aggressione avevo lasciato Stephen perché avevo "bisogno di cominciare da zero." Lui era furioso, ed era colpa mia. Forse se fossi stata meno fredda e brutale al telefono. Forse se fossi rimasta ad ascoltarlo, invece di perdere la pazienza e riagganciare. Forse se fossi stata zitta non sarebbe mai successo. Io e Stephen ci eravamo rimessi insieme tre giorni dopo.

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Non ho mai dovuto ascoltare la "versione" di Mary per crederle. Quale persona sana di mente si sottoporrebbe a un processo per uno stupro mai avvenuto? Si trattava di una persona che conoscevo da prima di imparare a leggere. Crescendo ci eravamo allontanate, ma in cuor mio non potevo credere che si fosse invischiata senza motivo in un processo nel quale sarebbe stata chiamata bugiarda, sarebbe stata provocata e sottoposta al giudizio di un sacco di uomini che volevano solo smentire la sua versione. Di sicuro non avrebbe messo a rischio la sua reputazione, la sua salute mentale, le sue amicizie e i suoi voti per una bugia. Cosa significava il fatto che il giudice avesse deciso che invece aveva mentito? Questa domanda mi ha ossessionata per tutti gli anni del college, ed è la stessa che mi ha fatto rimanere in silenzio quando è successo a me.

I dati del Dipartimento di Giustizia americano dimostrano che su cento persone accusate di stupro, solo tre passano un giorno in prigione. Con queste statistiche, non è difficile comprendere perché il 68 percento dei casi di stupro non vengano riportati. Spesso alle donne viene detto che affrontare un processo per stupro è addirittura più traumatico che lo stupro in sé. Ci dicono che riportare a galla le nostre esperienze renderà il dolore più vivido, ci farà più male, e non servirà ad alleviare il senso di colpa che proviamo. È stato detto anche a me. Si tratta di un consiglio pericoloso, ma noi lo seguiamo. Ingoiamo le nostre storie e le teniamo giù, ripetendo a noi stesse che non c'è speranza. Che è meglio dimenticarsi di tutto e andare avanti. E così lasciamo che anche i nostri stupratori vadano avanti.

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DUE

Ricordo l'inizio della serata. Ero tornata a San Francisco, al primo semestre al college. Ero con alcune amiche e stavamo andando a una festa della squadra dell'università. Ricordo di aver insistito che non avrei bevuto, perché ero ossessionata dal peso e bere alcol era tanto un'ingestione di calorie quanto una minaccia per la palestra della mattina dopo. Ero sobrissima, quindi ricordo di essere stata inseguita goffamente da un ragazzo della squadra, che voleva assolutamente offrirmi da bere e non accettava rifiuti. Era così gentile! Ricordo di aver pensato, "Un bicchiere non può farmi male." Ricordo che era aranciata con un alcolico, forse rum, in un bicchiere rosso. Non ricordo altro.

Il mattino dopo mi sono svegliata zuppa d'acqua sul pavimento della mia stanza, in dormitorio. Il mio materasso, di solito in alto sul letto a castello, era stato trascinato a terra. Non avevo idea di che giorno della settimana fosse, che mese fosse, niente. È stato uno dei momenti più surreali e terrificanti della mia vita. Solo quando mi sono messa seduta mi sono resa conto di quanto stessi male. Una volta preso atto del dolore, ho cominciato ad avere paura di guardarmi allo specchio. Quando sono riuscita a strisciare fino allo specchio, la situazione era peggio di quello che mi aspettavo: ero piena di sangue rappreso, avevo gli occhi neri, un labbro gonfio, un taglio sul mento e il naso rotto. Non capivo niente. Ho passato un paio di minuti a ripulirmi. Non ho pianto.

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Non ero pronta a chiedere alle mie amiche cosa fosse successo, quindi ho deciso di rimandare. Mi sono messa a letto e ho scaricato la prima stagione di Gossip Girl. Ho guardato un episodio dopo l'altro, con il computer che mi friggeva le lenzuola, cercando di dimenticarmi tutto. A metà stagione, ho mandato un messaggio alla ragazza della stanza accanto chiedendole di portarmi qualcosa da mangiare.

Lei mi ha portato dell'avena e mi ha fatto il resoconto della notte precedente. Sapevo di non essere stata stuprata—avevo deciso che me lo sarei sentita, se fosse successo. Ma mi avevano dato talmente tanta droga che non riuscivo a stare in piedi né a formare frasi sensate. Mi ha detto che ero caduta dalle scale della casa della festa ed ero atterrata sulla faccia. Le mie amiche mi avevano raccolto e trasportato a una tavola calda aperta tutta notte, dove ero collassata sul tavolo mandando per aria bicchieri d'acqua, piatti sporchi e stoviglie, riempiendomi d'acqua e graffi. Ci avevano buttato fuori. Avevamo chiamato un taxi. La mia terza caduta di faccia era stata in taxi, la quarta mentre camminavo verso il dormitorio.

Le mie amiche mi avevano buttato nella doccia, avevano cercato di lavarmi e svegliarmi. Stanche, mi avevano infine trascinato in camera, dove avevano tirato giù il materasso dal letto e mi avevano lasciato lì, svenuta. A ripensarci, erano solo 18enni che facevano del loro meglio per aiutare una ragazza che conoscevano da poche settimane. Al tempo, però, mi ero sentita tradita. Perché mi avevano scaricato come un pacco sul pavimento della doccia? Perché non mi avevano aiutato a camminare, dato che continuavo a cadere? Perché non avevano chiamato la polizia? Perché non mi avevano portato in ospedale? Ho addirittura smesso di uscire dalla mia stanza. Di certo non sarei andata a un'altra festa.

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Le reazioni a quello che era successo non hanno fatto che peggiorare la situazione. Secondo quasi tutte le persone con cui ho parlato, incluse alcune delle donne più importanti della mia vita, sono stata fortunata perché "non è successo niente": la loro idea di castità era rimasta intatta. Nel frattempo avevo perso due settimane di lezioni perché mi vergognavo a uscire con quella faccia piena di lividi. Ho coperto lo specchio con un asciugamano, perché non mi riconoscevo nemmeno io e non sopportavo di guardarmi. Ho cominciato a fumare erba tutti i giorni per sopportare la noia. Che sembra un po' un controsenso, dato che ero io che mi ero chiusa dentro. Ma ero paralizzata; fare quei pochi passi che mi separavano dalle lezioni o dalla mensa era impensabile. Quando alla fine mi sono avventurata fino alla mensa, ho incontrato una donna della mia città e sua figlia, che sarebbe entrata al college l'anno successivo. Le ho detto che ero caduta dalle scale. Alla fine, mi sono ritirata.

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TRE

Avevo trovato lavoro per Greenpeace. Il lavoro nuovo mi consumava del tutto. Mi ero trasferita con tre colleghi in un bilocale al quarto piano senza ascensore. L'acido per i miei coinquilini rappresentava più uno stile di vita che una droga; a un certo punto il 19enne con i rasta che viveva in subaffitto si era addormentato per cinque giorni e cinque notti e noi non eravamo più certi che si sarebbe mai svegliato. All'inizio il caos è stato un'amabile distrazione per me—avevamo i dischi di Janis Joplin e un sacco d'erba e un divano su cui i nostri ospiti potevano disegnare con i pennarelli. Ma lentamente mi sono resa conto che la mia vita stava andando fuori controllo. Ho lasciato San Francisco e mi sono ritirata a casa dei miei genitori, con la coda tra le gambe, sentendomi una fallita totale.

Dopo un anno a casa mi ero messa in pari con gli esami al college ed ero pronta a tornare in pista. Era passato molto tempo dal mio "esaurimento"—e avevo anche qualche stage a tirarmi su la media—e mi hanno accettato all'Occidental College con una lettera di raccomandazione da parte della senatrice Barbara Boxer, che era appena stata rieletta anche grazie al mio lavoro indefesso di ghostwriter.

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All'Occidental College, mi sono unita a una confraternita per conoscere altre ragazze. Dopo la breve esperienza universitaria precedente, i rapporti tra donne erano per me i più importanti—avevo sempre voluto essere "una ragazza che si circonda di ragazzi", ma a quel punto preferivo avere donne intorno e mi importava davvero poco di uscire con i maschi delle confraternite e delle squadre sportive. Mi sono anche trasferita a vivere nella sede della mia confraternita. Quando una delle mie amiche è stata violentata a una festa, sono rimasta con lei sul divano per ore mentre lei mi raccontava la sua storia. Solo io le credevo.

E poi c'era Dan. Era stato il mio primo bacio, e tempo dopo aveva anche picchiato Stephen perché era geloso. Dan era sempre stato un bambino violento. Aveva lasciato il liceo perché era cocainomane, era finito in rehab, e poi si era trasferito a vivere in una casa sulla spiaggia. Dopo un anno che vivevo nella casa della confraternita, Dan mi ha telefonato per chiedermi di pranzare insieme. Non ci sentivamo più spesso, ma era la mia prima cotta e io ero orgogliosa di lui perché era pulito da un po', e ho accettato.

A quel pranzo non ci è venuto. Non mi ha sorpreso—non stavo certo con il fiato sospeso. E comunque, stavo cominciando una nuova vita. Non mi interessava perdermi i racconti dell'alcolisti anonimi e le foto di pesci. In effetti, consideravo l'aver accettato il suo invito come "un bel gesto", e nient'altro.

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Ma quando mi ha chiamato alle nove di quella sera, mentre ero a una parafarmacia, mi ha detto che potevamo vederci, che era proprio di strada. Aveva già il mio indirizzo, e non riuscivo a convincerlo a desistere. Ho detto no più di una volta. Quando sono tornata a casa, era sugli scalini d'ingresso. Il resto della notte non me lo ricordo bene.

Ho cercato di bloccarlo in salotto, ma lui insisteva che voleva vedere la mia camera. Voleva vedere un film. Ma ci ha provato subito, e io ho usato la scusa più banale, "ho il ciclo" (per qualche motivo, "non mi va" mi sembrava sgarbato). Era come se fossi muta, non riuscivo a urlare mentre lui mi infilava il pene in bocca. Non riuscivo a convincermi a morderlo, anche se ci ho pensato. Non volevo che mi picchiasse. Preferivo succhiarglielo. Mentre lo scrivo sembra una cosa stupida, che potevo evitare. Ma il punto è che ero terrorizzata da lui. E peggio ancora, cosa sarebbe successo se avessi urlato e non fosse venuto nessuno?

Poi, finalmente, ha finito. È sceso dalle scale di corsa senza una parola. Io sono rimasta in camera mia, stesa sulla schiena. Fissavo il soffitto, mi sono alzata solo per lavarmi i denti. Le ore passavano. Ho cancellato e bloccato Dan su Facebook perché non potesse contattarmi. Ho deciso di dimenticare, ma la mia stanza non era più un luogo sicuro. Ho trovato un'altra stanza e appena ho firmato il contratto d'affitto mi ci sono trasferita. Per qualche notte, quando ancora non avevo avuto modo di spostare i mobili, ho dormito su una pila di cuscini nell'angolo della camera nuova. Non dormivo così bene da mesi.

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QUATTRO

Una delle mie "sorelle", Karissa, si era trasferita da me. Per andare in facoltà ci mettevo un quarto d'ora anziché pochi minuti. Nel tempo libero stavo in biblioteca, e non alla sede della mia confraternita. Mi vergognavo a non aver dato un preavviso sufficiente alle mie coinquiline prima di lasciare il mio posto nel bel mezzo del semestre invernale, perciò cercavo di evitarle.

Più che ricordi, mi sembrano sogni. Dopo un pomeriggio passato sotto il sole di ottobre di Los Angeles, nell'intervallo della partita di football dell'università ero tornata a casa con un ragazzo che frequentavo a intermittenza. Qualche ora dopo Karissa è piombata in camera mia e mi ha chiesto di andare con lei a una festa, perché a organizzarla era un ragazzo che le piaceva. "Non farmi andare da sola!" mi ha detto sorridendo. Si è avvicinata, mi ha preso per la gamba e poi si è spostata verso l'armadio per scegliermi i vestiti. Riluttante mi sono alzata dal letto, ma lui non è voluto venire. Era troppo stanco. Gli ho detto di aspettarmi, non più di un'ora—parola di Karissa.

Appena sono arrivata alla festa mi è stato dato un bicchiere di tequila. E un altro. Era stata una giornata lunga, ero disidratata e un po' stanca. Roy, uno degli inquilini, mi ha proposto di andare a stendermi in camera sua e tornare alla festa una volta che mi ero ripresa. Mi ci aveva accompagnato subito dopo che avevo accettato l'offerta, certa che mi sarebbe bastato giusto qualche minuto. La sua stanza era nel seminterrato e aveva il soffitto in pendenza. Il letto era sfatto, le lenzuola blu. Fortunatamente se ne era andato poco dopo, e io mi ero addormentata.

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Quando mi sono risvegliata, la mattina successiva, la vista non era delle migliori. C'era una sola finestra, in alto ma a livello del marciapiede esterno, dalla quale nessuno poteva aver visto nulla. Nessuno che avesse potuto sentire le richieste di aiuto (ammesso ce ne fossero state). Il soffitto proiettava un'ombra all'interno della stanza, che sembrava assolvere un compito profondamente in disaccordo con lo scopo per cui era stata pensata. Se ad abitarci fosse stata una famiglia, in quella stanza ci sarebbero stati al massimo gli scatoloni con le decorazioni natalizie, trofei dimenticati e un bel po' di polvere.

La mia vagina pulsava. Ho allungato la mano e sfiorato la pelle nuda, mentre sussultavo per l'umiliazione e provavo un vago senso di sollievo nel non sentirmi cambiata. Ho cercato i vestiti e nel muovermi ho urtato il corpo di Roy, che si è svegliato. Ha sorriso ancora immerso nel torpore, si è stiracchiato, ha aperto gli occhi ed emesso un grugnito soddisfatto che mi ha fatto gelare il sangue. Il suo stesso aspetto mi disgustava. Avrei voluto urlargli qualcosa, ma non l'ho fatto.

"Cosa è successo ieri sera?" gli ho chiesto con un chiaro intento passivo-aggressivo. Stavo cercando di spingere uno stupratore mezzo addormentato ad ammettere i suoi crimini. Roy invece ha cercato di abbracciarmi, baciarmi e toccarmi. Sembrava chiaramente fare il possibile per passare come quello ignaro di aver fatto sesso con una persona incosciente. Non era molto convincente, e io non era disposta ad abboccare. "Eri convintissima," ripeteva. "Eri eccitata. Non ci credo che manco ti ricordi." Gli ho chiesto perché, allora, avevo dei segnacci sulle gambe e sul busto. Non ha saputo dare una spiegazione vera e propria. Pare che fossi caduta dal letto, ha detto, ma poi mi ero rialzata e avevo voluto continuare. Ho smesso di ascoltarlo; osservavo il comodino in legno accanto al letto. Gli angoli erano appuntiti, la struttura robusta. Possibile che fossi caduta, avessi sbattuto contro il legno e non mi fossi comunque svegliata?

E soprattutto: come avevo fatto a lasciare che succedesse di nuovo?

Sono dovuta restare finché anche Karissa non è stata pronta. Ma lei si era presa tutto il suo tempo. Sarebbe stato scocciante anche se non fossi stata in quella situazione. Mi sentivo in trappola, e quando finalmente siamo arrivate a casa l'altro ragazzo non c'era più. Aveva lasciato un biglietto, ma non l'ho chiamato perché non mi andava di dargli spiegazioni. Non ci siamo rivisti per mesi.

Karissa non è mai riuscita a credere che Roy mi avesse stuprata. Mi diceva che probabilmente non ricordavo nulla, che Roy non era il tipo. Penserete che fossi arrabbiata, indignata. Ma la cosa più assurda è che non lo ero affatto—cercavo di darle ragione. Cercavo disperatamente di convincermi che ero stata io a chiedere a Roy di fare sesso, che avevo detto sì, che lo volevo. Ma non ci credevo. Dopo aver visto da Facebook che Klarissa faceva venire Roy a casa nostra mentre non c'ero, ho trovato un subaffituario e lasciato casa, di nuovo.

Mi sono trasferita nell'appartamento dove vivo due anni fa. È un posto tranquillo ed è tutto mio. Mi sento a casa più di quanto lo sia mai stata in tanti anni. Parcheggio in un garage blindato e prendo un ascensore che si apre solo con la chiave. Sono sempre cauta perché non voglio che mi risucceda quello che è successo. Mi tratto bene. Esco con amici di cui mi fido e non mi metto in situazioni strane con persone di cui non mi fido. Ho una famiglia che mi ama e che mi protegge. Ho un ragazzo che mi rispetta al punto che a volte fatico a credere che sia vero. Sono grata per tutte queste sicurezze. Sono fortunata perché mi sono sempre rimessa in piedi. Per molto tempo ho pensato che raccontare le mie storie mi avrebbe fatto sentire peggio. Perché rivangare vecchi dolori?

Circa un anno fa, però, dopo aver ignorato innumerevoli richieste di amicizia su Facebook da parte di Dan, ho accettato. Mi ha sorpreso con un messaggio in cui mi chiedeva scusa. Mi ero convinta che non avrebbe mai ammesso di aver sbagliato, soprattutto perché non credevo che se ne fosse nemmeno accorto. Invece mi ha detto, "Mi hai cancellato da Facebook dopo quella sera. Mi dispiace molto di averti trattato così. Sei stata la mia amica più cara per tanto tempo. Mi sono fatto un po' prendere la mano con il modo in cui trattavo le ragazze, a quel tempo. Non avresti dovuto essere una di loro e mi dispiace molto."

L'ultima parte mi ha colpito più di tutte. Gli occhi mi bruciavano di lacrime—non avevo mai pensato alle altre ragazze. Ma ovviamente ce ne erano. Con quante altre aveva fatto lo stesso? Perché scusarsi proprio con me? Tremavo di rabbia. Per anni non avevo fatto altro che cercare di dimenticare quella sera. Ma il mio silenzio non faceva che tenere vivo il problema. Il mio silenzio faceva del male alle altre. Ecco quello che ho capito allora: che queste non sono storie mie, che posso nascondere.

Mi ha già dato della bugiarda la mia coinquilina e amica dopo che le ho detto cosa mi aveva fatto Roy. La mia famiglia mi ha già detto di farmi forza, dopo che ero stata drogata. Un commento negativo non mi tocca. Quanto mi ha stancato e frustrato nascondere le mie esperienze, altrettanto è stato doloroso riviverle. Quanto è faticoso portare il fardello del coprire i crimini altrui. Non accetto più di dovermi sentire in imbarazzo perché mi hanno stuprata. È difficile ricordare, ma è più difficile dimenticare.

*Tutti i nomi sono stati cambiati.

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