salute mentale

Il burnout è una realtà, e la soluzione è cambiare radicalmente il modo in cui lavoriamo

Non è più solo un “collasso fisico o mentale causato da troppo lavoro,” ma uno stile di vita che affligge la nostra generazione.
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Ron Livingston, David Herman e Ajay Naidu in "Office Space." Foto di Getty Images.

La maggior parte della gente è condannata per tutta la vita a fare un lavoro che non ama. Sempre di più, però, le autorità di tutto il mondo stanno riconoscendo che il lavoro non dovrebbe, per lo meno, risucchiare completamente l’anima di una persona.

Recentemente, l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha inserito il “burnout” nell’undicesima versione della Classificazione internazionale delle malattie (ICD-11) alla voce “fenomeno occupazionale,” corredandolo addirittura di una serie di criteri diagnostici. È soltanto l'ultimo, ma senza dubbio il più ufficiale, segno che non va per niente bene che le misure che adottiamo per sopravvivere diventino un’orribile, inutile sgobbata che riempie i nostri giorni di paura e infelicità mentre tristemente ci affanniamo per arricchire qualcun altro. La comunità medica, quindi, sembra finalmente essersi messa al passo con quello che alcuni autori, attivisti del lavoro e ricercatori della sanità pubblica dicono da un bel po’ di tempo.

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Ciò che resta da vedere è se questa tendenza si spingerà mai oltre la nuova classificazione l'OMS—un'agenzia sotto l'egida dell'ONU—e contribuirà nel concreto a migliorare la vita dei lavoratori.

“C'è un limite a quello che gli esseri umani possono fare, e il modo in cui il lavoro è organizzato ne è spesso il principale motivo,” spiega Torsten H. Voigt, sociologo presso la RWTH Aachen University in Germania, e coautore di una serie di importanti articoli sul burnout. “Con la spinta alla produzione e all'automazione tecnologica, infatti, non dovrebbe essere necessario che tutti ci facciamo il culo sul lavoro.”

Il burnout era diventato un fenomeno semi-ufficiale già nel 1974, quando Herbert Freudenberger, uno psicologo tedesco-americano, lo aveva usato per descrivere quello che aveva chiamato “collasso fisico o mentale causato da troppo lavoro o stress.” Nonostante il suo uso in letteratura, ci sono voluti 45 anni affinché il burnout ottenesse lo status ufficiale di “sindrome.” Ma nel frattempo, il burnout si è, purtroppo, trasformato in uno stile di vita. Oggi, il burnout non è tanto la sensazione di essere sopraffatti sul lavoro, ma un’afflizione generazionale. Nel 2016, lo psicanalista Josh Cohen ha magnificamente profilato il fenomeno sulla rivista 1843 dell’ Economist. Ecco un piccolo ma angosciante estratto:

Il burnout aumenta man mano che il lavoro si insinua sempre di più in ogni angolo della vita—se un'ora di tempo libero può essere messa a frutto per leggere un romanzo, portare a spasso il cane o mangiare con la propria famiglia, viene rapidamente contaminata da pensieri vaganti di scadenze incombenti. Anche durante il sonno, immagini scomposte di fogli di calcolo e frammenti di conversazioni manageriali invadono la mente, mentre le dita addormentate scorrono sul piumone, come su una tastiera fantasma.

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All'inizio di quest'anno, Anne Helen Petersen di Buzzfeed ha scritto un articolo intitolato "How Millennials Became The Burnout Generation.” Il saggio è diventato così virale che Petersen è finita a parlarne al Today Show.

L'annuncio dell'OMS è arrivato dopo l’introduzione di una nuova legge sul lavoro in Giappone lo scorso aprile, per arginare quella che sembra l'infinita giornata lavorativa nel paese, consentendo non più di 720 ore di straordinari per lavoratore all'anno in alcune grandi aziende. Il provvedimento giunge in risposta a un aumento dei “karoshi,” le morti per eccesso di lavoro, di cui ci sono stati 190 casi ufficiali nell'anno fiscale 2017.

Questa non è la prima volta che nella classificazione internazionale delle malattie è stata riconosciuta l'esistenza del burnout, ma questa nuova classificazione è una sorta di aggiornamento. Il burnout era già stato incluso nell'ICD-10—la prima volta in cui il burnout è stato menzionato esplicitamente, secondo Voigt—ma all'epoca era solo una “diagnosi aggiuntiva.”

Voleva dire che se, per esempio, uno psicologo clinico che utilizzava l'ICD-10 per fare diagnosi voleva trattare qualcuno per burnout, avrebbe dovuto diagnosticare qualcosa di più ufficiale come una depressione minore. Nel nuovo ICD, che è ancora in fase di compilazione e non entrerà formalmente in vigore fino al 2022, il burnout sarà invece una diagnosi, ha spiegato Voigt. La nuova versione, secondo il sito dell'OMS, includerà tre criteri effettivi: sensazioni di esaurimento o di grande stanchezza; maggiore distanza mentale dal proprio lavoro, o sentimenti di negativismo o cinismo relativi al proprio lavoro; e ridotta efficacia professionale.

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Di certo, i pericoli qui si aggiungono alle molte altre conseguenze negative create dal troppo lavoro, che è già stato trovato altrettanto potenzialmente problematico per la salute generale quanto un’esposizione costante al fumo passivo, secondo uno studio del 2015 di alcuni ricercatori di Harvard e Stanford. Quindi, se è bello che l'OMS stia riconoscendo che la lo stress sul lavoro è di per sé un vettore patologico, è ragionevole chiedersi se si debba trattare la malattia e soprattutto prevenirla.

Per Eric Blanc, sociologo, sindacalista e autore del libro Red State Revolt: The Teachers' Strike Wave and Working-Class Politics, l'idea di trattare lo stress da lavoro come un problema diagnosticabile “ignora il fatto che il carico di lavoro che è aumentato da alcuni decenni a questa parte a causa dello smantellamento del movimento sindacale è la fonte di ciò che viene vissuto come burnout individuale.”

Le sue proposte per la risoluzione del burnout includono giornate di lavoro più brevi e sindacati più forti.

Proporre sindacati invece della psichiatria non significa essere superficiali, e Blanc riconosce pienamente la sofferenza che si prova con il burnout. Ma “lo stress di sentire che potresti venire licenziato in qualsiasi momento, o il fatto che tu debba accettare qualsiasi direttiva dai dirigenti sopra di te, può essere mitigato da una sorta di rappresentanza collettiva,” ha detto.

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Dopotutto, quando Voigt ha iniziato a studiare il burnout a metà degli anni 2000, il mondo era un posto diverso. La crisi economica del 2008 non era ancora avvenuta, Wall Street non era ancora stata occupata, e l'economista francese Thomas Piketty non aveva ancora rinvigorito le idee di Karl Marx. Quindi, al tempo, il concetto di burnout aveva una “connotazione positiva in un certo senso, almeno nel contesto tedesco,” chiarisce Voigt.

“Era legato all'etica del lavoro negli Stati Uniti—dove lavori duro, ma puoi anche ottenere praticamente qualsiasi cosa se lavori abbastanza, almeno a livello teorico,” ha spiegato. "Era quasi trendy parlare di burnout, e anche ammettere di soffrire di burnout.”

La fissazione dei lavoratori moderni con una produttività sempre più gloriosa è stata, per Blanc, parte di ciò che ha reso l'annuncio dell'OMS non proprio ideale—in particolare quel terzo criterio diagnostico: ridotta efficacia professionale. Secondo lui, vale la pena contrastare il burnout solo per trarre più profitto dai lavoratori. Petersen aveva virato in una direzione altrettanto radicalizzata nel suo saggio.

“Stiamo iniziando a capire che cosa ci affligge, e non è qualcosa che un trattamento all’ossigeno per il viso o una scrivania con tapis roulant possono aggiustare,” ha scritto, osservando che “il cambiamento potrebbe arrivare dalla legislazione, o dall'azione collettiva, o dal continuo attivismo femminista, ma è follia immaginare che arriverà dalle aziende stesse.”

Infatti, a meno che una diagnosi di burnout possa alla fine tradursi in una vera richiesta di risarcimento da parte di un lavoratore, è difficile immaginare che la mossa dell'OMS sarà vantaggiosa per i lavoratori. “Onestamente,” ha detto Blanc, “penso che sia piuttosto razionale soffrire di burnout lavorando in un centro commerciale, ed è una risposta piuttosto razionale non voler lavorare tanto quanto i tuoi capi potrebbero volere tutto il giorno.”

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