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Demented parla da solo

David Bowie siamo tutti noi

Nel corso di quasi cinquant'anni di carriera David Bowie è riuscito a sintetizzare i sentimenti comuni a tutti. Ripercorriamo il suo percorso di crescita, che in qualche modo è stato specchio di quello del mondo occidentale, musicalmente e non.

Ieri sul mio Facebook ho scritto un po' di pensierini su Bowie. Li chiamo così perché somigliano alle cose che scrivevo alle elementari, quando parlavo delle mie impressioni su un argomento che mi stava a cuore. La sua morte infatti mi ha in qualche modo fatto regredire e in pochi secondi mi si è riavvolta la storia davanti agli occhi—una storia di ascolti che mi hanno accompagnato da quando ero un bambino fino a oggi costruendo il mio immaginario: presenza e punto di riferimento fisso, Bowie da artista completo qual era è sempre stato ovunque, nel teatro, nel cinema, in televisione. Era la sicurezza che i sogni diventano materia, e ha sintetizzato un sentimento comune e sotterraneo delle varie fasi storiche e individuali.

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È cresciuto con noi, siamo noi, e non solo: ha "previsto" quello che in cuor nostro sapevamo ma non abbiamo mai osato confessarci. Anche quest'ultimo disco non è da meno.

Metto le virgolette sul "previsto" non per svalutare la sua portata innovativa, ma anzi per rafforzarla. Perché Bowie non è stato baciato da chissà quale divinità: quello che ha fatto è semplicemente osservare, descrivere, scoperchiare e andare avanti verso il successivo step evolutivo. Cambiare pelle come noi ci trasformiamo tutti i giorni dal momento in cui mettiamo piede fuori dell'uscio di casa fino al ritorno, dandogli la forma di performance. Anche la malattia di cui nessuno sapeva nulla era trasformazione per lui, non decadenza. La metafora della stella nera, un falso e inesplorato buco nero in cui l'orizzonte degli eventi non è visibile, è una metafora di vita e non di morte. Anche se chiaramente la sua colonna sonora non poteva essere e non è stata una cosa pop, spensierata. È comunque un mistero e il mistero lascia giocoforza una scia di ambiguità di cui lui era un maestro.

D'altronde, nel resto della sua produzione Bowie non ha mai concesso chissà che al pop e alla comprensibilità: anche nel video ufficiale di "Let's dance" faceva vedere la durezza dello sfruttamento delle minoranze e il pericolo nucleare incombente. E quando ti sembrava comprensibile infilava dentro qualche zozzeria sonora—e a risentirlo col senno di poi si rimane basiti pensando che abbia avuto tanto successo. La cosa bella è che la sua vita è costellata da temporanei fallimenti artistici che poi sono stati a mano a mano rivalutati, perché al tempo la critica non si guardava allo specchio per ammettere i propri. Come tutti i grandi artisti Bowie era contemporaneo solo a se stesso, ma non solo. Non esisteva. Esistevamo noi per lui: chi lo accusa di aver copiato di volta in volta le mode nascenti non ha capito che Bowie era semplicemente al servizio dell'aria che respirava attorno a sé. Non gli interessava scrivere quanto farsi scrivere lui dalla storia e dalla vita, per questo aveva l'umiltà di ispirarsi a qualcuno di contemporaneo se era necessario, citando le fonti a richiesta. Un pallone gonfiato non l'avrebbe mai fatto.

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Anche nello svago Bowie ci mette quel tanto di disagio che non guasta.

È quindi indubbio che questo atteggiamento rivolto a farsi attraversare dal mondo si sia sintonizzato sul rumore verde della terra. Io ad esempio ho dei ricordi di Bowie davvero prematuri: la prima volta che lo vidi avevo sette anni e in un televisore in bianco e nero trasmettevano il video di "D.J.". Bowie si baciava in bocca con un uomo, distruggeva dischi, e la sua musica era una cacofonia allucinante. È uno dei flash più vividi che ho del passaggio dall'infanzia verso una consapevolezza storica: mi ha tirato uno schiaffo come per svegliarmi. La sua musica rifletteva perfettamente quegli anni, la fine dei Settanta, dove aleggiava la paranoia. C'erano frequenti blackout (un suo pezzo in

Heroes

porta questo titolo) e non era raro finire a lume di candela, ma non in senso romantico. In "Heroes" si prevedono i "figli dell'età silente" che non leggono più libri e non sanno più come si ama: potremmo dire preveggenza, ma era semplicemente un umore che già esisteva grazie alla televisione, alla cultura di massa e a un'educazione alla vita pressoché assente. Nessuno lo accettava, ma era la cosa più pop del mondo. Ecco perché Bowie era veramente una popstar: nonostante i suoi dischi fossero di una pesantezza micidiale, raccontavano la vita di tutti.

Il pezzo che ha rovesciato la vita di molti in tenerissima età, fra i quali me. Un Dj che ancora non esiste.

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Negli anni Ottanta è stato criticato per l'eccessiva leggerezza dei suoi lavori, accusato di aver seguito il trend commerciale per opportunismo. In realtà, ancora una volta, sarebbe stato ipocrita se avesse ignorato che alla gente piaceva distruggersi divertendosi anziché facendosi le pere come una volta. E quindi tutto sommato la cosa rimane coerente con i vari "Tonight" o "Never let me down". D'altronde è lui stesso a dirci, a proposito di "Loving the alien", che "nasce dalla sensazione che gran parte della storia sia sbagliata, dal momento che viene riscritta continuamente, e che ci basiamo troppo sulle errate conoscenze che abbiamo accumulato." Nel 1984 per me Bowie era il tipo strano del video di "Blue Jean" in cui nello stesso tempo interpretava la rockstar per cui la gente si bagnava le mutande e il tipo sfigato costretto a vivere di seghe. Catturava sia le sensazioni dei ragazzini dell'epoca (quelli come me, che oscillavano fra sogni di amore e sindromi da Calimero) che dei più grandi, magari yuppie che senza una bella tirata di coca rimanevano dei loser del cazzo. Non era più il Bowie di Ziggy Stardust, apparentemente relegato nell'angolo della memoria come tutto l'eccezionale periodo psichedelico dei Sessanta—tenuto però ancora in piedi da "Space oddity" che nell'era della corsa allo spazio rimaneva un evergreen. Ma se vero è che Ziggy era un personaggio nato proprio per "sparire", in quanto luogo comune della rockstar destinata alla distruzione, sotto sotto era ancora in auge. Rappresentava ancora la maggioranza degli artisti rampanti della

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age of plastic

di bugglesiana memoria, quelli che tanto "facciamo un disco per i soldi," " facciamo un quadro per pagarci le orge."

La colonna sonora della mia prima comunione e una delle cose migliori mai fatte da Bowie negli Ottanta, al solito spiazzando tutti con la partecipazione di Pat Metheny.

Lo dice Bowie stesso rispetto alla parabola discendente degli anni Ottanta: "Inebriato dal successo avevo perso il mio naturale entusiasmo per le cose. Credevo di non avere più niente da dire e pensavo solo a guadagnare il più possibile; temevo di essere vicino alla fine." Non ha fatto altro che esprimere un sentimento condiviso, se è vero che poi finanche negli anni Novanta spuntarono fuori tanti piccoli "Ziggy Stardust" che presero il rock come un modo per farsi coccolare dai facili entusiasmi della massa. Un atteggiamento che ha creato meteore (vedi i Menswear, ideali eredi del suo periodo glam): a lui però interessava sondare l'interno di questi meccanismi, e l'unico modo per farlo era negarsi. Ecco quindi i Tin Machine: quando uscirono c'era nell'aria una voglia di roba di pancia, che poi sarà il grunge. Bowie diventa il cantante di una band di noise rock "popolare". Basta con la centralità del singolo cantante pieno di sé, vai col collettivo. Quando l'ascoltai mi pareva grandioso: all'epoca avevo appena iniziato a mettere su delle band e sembrava che Bowie mi leggesse nel pensiero, ma tutti a storcere il naso finché non arrivarono Cobain e compagnia con la strada già bella che spianata.

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Prima dei Sonic Youth con la loro Youth Against Fascism, i Tin Machine parlavano dell'inquietante ritorno dei naziskin.

Anche qui: le pressioni della società all'epoca erano in crescita, soprattutto per la fine del benessere generalizzato degli Ottanta e le conseguenti crisi di vario genere (fra le quali le rivolte di Los Angeles del '92, che portarono Bowie a flirtare con l'hip hop). David scrive "Jump they say" nel '93 proprio su questo tema ma ispirandosi a un fatto autobiografico, il suicidio del fratellastro avvenuto nell'81: poco dopo Cobain si toglie la vita. Il collettivo visto come qualcosa di progettuale comincia quindi a stare stretto a tutti, non funziona.

Bowie annusa che la gente desidera tornare alla carne, a sentire il proprio corpo come tale, a un confronto più diretto con l'idea della morte. In pratica, aderisce al movimento industrial. Sarebbe potuto tornare con un facile album pop, invece mette in piedi un'opera molesta, Outside, che parla di "crimini d'arte" e mutilazioni come sculture, immaginando questo come la prassi, come una roba da supermercato (cosa che in effetti poi è diventata). Si legò quindi a doppio nodo a uno dei suoi figliocci, ovvero Trent Reznor.

I NIN e Bowie fecero un tour insieme che definire devastante è poco, scambiando non solo il palco ma anche i brani. E ovviamente divisero il pubblico, che non li capì com'è giusto che sia quando si sperimentano il bello e il brutto insieme. La versione di "Hallo Spaceboy" in questo live è capace di pettinarti il cervello. E pensare che all'epoca il duca aveva quasi cinquant'anni e fronteggiava arene piene di 17enni impasticcati; ma lui le pasticche se le era già prese tutte. Come un anziano ed esperto lottatore di judo mette al tappeto gli avversari col minimo sforzo, quasi immobile e statuario mentre Trent fa il triplo della fatica, tanto che alla fine Bowie lo metterà sotto la sua ala protettiva aiutandolo a disintossicarsi. Ma non è finita qui.

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Una delle cose più potenti mai viste negli anni Novanta: Bowie e i NIN in grandissima forma.

Nel 1998 io ero un ventenne e mi gonfiavo le orecchie con la trilogia berlinese—soprattutto con

Lodger

, vero capolavoro di dissociazione con il colossale The idiot, a nome di Iggy Pop ma con una paranoia che era tutta di Bowie. Trovai le cassette originali in un mercatino, la prima fu

Low

: pochi anni prima, a mia insaputa, il succitato Trent Reznor si era ispirato proprio a

Low

per il suo capolavoro

The Downward Spiral

. Nel frattempo era da poco uscito

Earthling

, in cui David si dava all'elettronica come se fosse un pischello in giro per i rave. Dando importanza ai ritmi spezzati in pista, non fece altro che ammettere le potenzialità pop della cosa, che in questi giorni ormai è prassi. "Little wonder" è la colonna sonora di un rave sintetizzato in cinque minuti, allegramente sdoganato.

Cinquantesimo compleanno di Bowie: fra gli ospiti speciali un altro che gli deve molto, Robert Smith.

Ovvio che poi negli anni Duemila quest'allegria è andata a farsi fottere con l'11 settembre. Già in

Hours

Bowie viene ritratto in copertina esausto a sorreggere se stesso, segno che il secolo sta per finire nel peggiore dei modi, ma ancora prima con "I'm Afraid of Americans" sapeva che qualcosa stava andando storto. Nel 2001, durante quell'11 settembre, io ero un giovane atterrito che vedeva il disastro dalla tv di un negozio di dischi a Zurigo, appena arrivato dalla Germania dove avevo acquistato una copia di

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Scary Monsters

, un'altra pietra miliare. Fatto sta che un anno dopo Bowie pubblica uno dei miei dischi preferiti della sua ultima incarnazione, ovvero

Heathen

, ispirato da quell'evento. Pagano fino alla fine come da titolo, il disco è una descrizione del crollo di qualsiasi fede e dello schifo in cui versa l'umanità, con un sentimento tanto forte da sfiorare la tragedia greca nel rock. S'inaugura il ritorno al Neoclassico, come se la gente volesse guardare indietro a un'era di purezza immaginaria e di raccoglimento: lo dice proprio lo storico produttore e amico Tony Visconti: "

Heathen

sembrava capire il sentire della gente. La gente sentiva automaticamente la necessità, quindi, di capire

Heathen

". Una meravigliosa e commovente sinfonia, una simbiosi osmotica straussiana, fra il pubblico e Bowie: fino al 2003, con

Reality

, saranno uniti dalla necessità di essere sinergici cercando la realtà perduta fra la marea d'informazioni e stress emotivi indotti dall'esterno (non certo scelti come nel periodo industrial).

A quel punto la realtà si abbatterà su di lui con un infarto, che gli precluderà i palchi tanto amati. Sembrava proprio il canto del cigno, invece nel 2013 il ritorno con

The Next Day

. E chi se lo sarebbe aspettato? Soprattutto chi avrebbe immaginato un Bowie invecchiato, già dalla copertina intento a cancellare il suo passato per andare verso l'ennesima trasformazione, quella della pagina bianca? Su quella pagina segna i ricordi e le malinconie di un 60enne costretto al ritiro che però sente il richiamo delle tentazioni, della fama, di un passato brillante che è più forte di lui e forse lo schiaccia. Musicalmente è delicatissimo, volutamente con pochi guizzi perché è così che va la vita. A volte è flat, è "normale": un aspetto che Bowie non aveva mai preso in considerazione ma che in fondo è anche il desiderio della gente qui e ora, un desiderio alla fine folle pure lui. Evadere il concetto di riuscire a tutti i costi, abbandonare le competizioni, essere quello che si è nel contingente e basta, con i propri pregi ma soprattutto con i propri difetti: è fatalmente impossibile. In questo senso Bowie firma il suo disco più umano, sapendo che le persone si sono rotte il cazzo delle icone e del fumo negli occhi: il percorso portato avanti da

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Reality

qui si compie nella sua pienezza.

Io però ascoltandolo mi sono domandato se il duca

,

stavolta bianco davvero per ragioni di età senza trucco e parrucco

,

non avesse un asso nella manica da giocarsi, qualcosa di dirompente, che non fosse un prendere fiato tipo la pausa di

Hours

. Come me,

molti pensavano la stessa cosa

: anche stavolta Bowie ci ha ascoltato ed ecco

Blackstar

. Dai video non potevo credere che se ne fosse uscito in un modo così estremo, superiore alle mie attese. Che poi sì, ovviamente il disco era malato, s'intuiva una riflessione sulla vecchiaia, sull'incombenza della morte nel contemporaneo

,

e la ricerca di qualcosa di esoterico per andare oltre.

Ora riascoltando i testi scopro che sono invece di una franchezza assurda, quasi come se Bowie ti si confessasse addosso e tu fossi il prete che gli da l'unzione. È un disco registrato nell'aldilà: suona leggero come un fuoco fatuo e pesante come una tomba di marmo. Ma fortunatamente con questa sua uscita di scena ha anche avuto la genialità di annullare ogni tipo di coccodrillo: ha celebrato la sua morte con la nascita di un disco che è cosa ben più importante della mera decomposizione, e ha fatto parlare più quello che la sua dipartita. Ha cremato la sua anima in un disco estremo, sparando la sua bara sulla luna quando avrebbe potuto lasciarci tranquillamente delle ballate piagnucolose.

Questo rimane: tutto il resto lo lasciamo agli haters che—appunto—non hanno mai capito un emerito cazzo. Grazie David di averci fatto esistere nella tua stella nera: è stato e sarà sempre bellissimo.

Grazie a Jonida, bowiana fino al midollo, per l'ispirazione.

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