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Demented parla da solo

Il ritorno della musica classica

A quanto pare, la diatriba fra musica “classica” e musica “bassa” non ha ancora trovato la sua degna fine. Per capire quali sono i problemi e le risorse della musica classica oggi abbiamo intervistato la pianista Alessandra Celletti.

…e di Simone Tso, come potete notare dall'illustrazione.

Sicuramente molti di voi sono soliti viaggiare spesso, in aereo ad esempio. Non so se avete presente quelle riviste che vi danno quando salite sui voli lowcost, dove ci sono articoli, consigli per gli acquisti e altre amenità da viaggio. Ecco, di recente mi è capitato di leggervi un’intervista a Riccardo Muti in cui il famoso direttore d’orchestra dà i suoi pareri sullo stato della musica in Italia, che ovviamente per lui è solo quella classica, cedendo alla “diversità” solo a proposito delle “bande di paese” (!) che sostiene fermamente non si sa per quale motivo. A mio parere l’intervista era di una dabbenaggine e di una reazionarietà senza fine spacciata per classe; tant’è, pare che questa diatriba fra musica “classica” e musica “bassa” non accenni a trovare la sua degna fine. Per fare il punto della situazione ho deciso di contattare Alessandra Celletti, pianista considerata una delle interpreti principali di Satie nonché, tra gli altri, di Ravel e Philip Glass. Ha anche altre frecce al suo arco, rappresentando forse l’approccio contemporaneo alla materia fra tradizione e sperimentazione. Infatti è da poco uscito Above the sky, il suo nuovo disco per la Transparency, che ha in catalogo anche dischi di Sun Ra e Helios Creed dei Chrome ed è portata avanti da Michael Sheppard, che i più scafati conosceranno per aver organizzato le prime date in USA dei Throbbing Gristle. Se ci aggiungete che da poco costei grazie al crowdfunding ha messo su un tour in paesini minuscoli d’Italia suonando gratis su un camion, potete capire che l’intraprendenza e la stranezza non le mancano.

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VICE: Alessandra, piacere di conoscerti. Tu sei a tutti gli effetti una pianista classica, quindi immagino avrai fatto tutti gli studi del caso. Raccontaci un po’ il tuo percorso.
Alessandra Celletti: Suono il piano da quando ho appena sei anni. Mi sembra di aver imparato a leggere prima le note sul pentagramma che non le lettere dell’alfabeto. Quindi considero il pianoforte lo strumento che da sempre ho a disposizione per comunicare. La mia prima insegnante, Angela, mi faceva suonare solo ciò che mi piaceva e mi ha trasmesso la bellissima sensazione di giocare con i suoni. Non c’erano mai rimproveri né pesantezza. Mai mi si chiedeva di fare qualcosa di più di quello che facevo spontaneamente. Poi a 11 anni sono entrata in conservatorio e lì invece non è stato facile. Troppe regole e formalità. Troppi confronti. Troppa separazione tra “giusto” e “sbagliato”. Ma sono riuscita a resistere e a terminare gli studi, inaspettatamente anche con un ottimo risultato finale. Dopo il conservatorio per fortuna ho incontrato colei che ha saputo conciliare in me disciplina e senso di libertà: Vera Gobbi Belcredi, un’insegnante fantastica e una persona davvero speciale. Poi, ad un certo punto, ho studiato sei mesi al conservatorio di Praga, la mia città del cuore.

Di solito fra i pianisti classici c’è un lack di creatività. Nel senso: tutto il pensiero creativo è spostato verso l’interpretazione dei brani, che a volte rasenta il maniacale e il filologico oltre che il personale, per quanto non abbiamo reale percezione di come l’autore lo suonasse/facesse suonare a meno che non esistano lacche registrate, tipo il caso di Rachmaninov. Però nel tuo caso sei anche autrice. Come vanno d’accordo le due cose?
Io ho un carattere allegro e giocoso, ma non sopporto molto quando mi si dice cosa devo fare. Sono ribelle, ma anche un po’ timida, e non è stato facile conciliare questi due aspetti. Inoltre non mi piacciono affatto le gerarchie. Anche nei generi musicali. E troppo spesso negli ambienti accademici la musica “classica” viene considerata l’unica di serie A. Mi piace la musica antica e l’avanguardia, la musica da camera (soprattutto Brahms e Ravel), il rock, il pop e ho un vero amore per la musica punk… L’approccio filologico non mi ha mai interessato molto e nel momento in cui decido di dedicarmi allo studio di un brano (non importa se di un autore del Settecento o contemporaneo) lo considero “mio” a tutti gli effetti. Può essere un approccio discutibile ma per quanto mi riguarda è il solo modo che mi permette di entrare davvero in contatto con l’autore. Così sono arrivata alla conclusione che per me non fa differenza suonare composizioni mie o di altri.

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Alessandra Celletti suona composizioni sue e di altri durante il tour Piano Piano, svoltosi interamente su di un camion.

Ti confesso che anche io ho fatto un certo numero di anni di pianoforte sia nel classico che nel jazz, poi ho deciso di continuare da autodidatta, perché i due approcci si mandavano affanculo l’un l’altro: da lì ho capito che la cosa importante è trovare la propria, di tecnica. Infatti chi esce dalla classica è spesso incapace a improvvisare e a fare pop. Ti sei trovata anche tu a dover re/imparare tutto e a sentirti in un certo senso autodidatta?
Io mi sento tutt’ora così. Certe volte non sono sicura che mettendo le mani sul pianoforte uscirà qualcosa di sensato… Pur suonando da sempre ogni volta mi sembra un miracolo.

La musica classica è qualcosa di simile a un Golem. Molti pensano sia morta e sepolta, altri la risvegliano con il pop, altri ancora spostano le lancette fino alla contemporanea/elettronica dagli anni Settanta ad oggi, se non addirittura al rock. Forse sarebbe meglio dire che qualcosa è classico se è “senza tempo”? Per me lo è ad esempio anche il nuovo Bowie.
Perfettamente d’accordo con te. Compreso l’amore per Bowie.

Alessandra Celletti suona il suo nume tutelare di sempre, ovvero Erik Satie.

Hai sempre dichiarato di stare in fissa per Satie. Ora, Satie è quello che ha portato il primo esempio di scavallo dalla classica al pop, almeno a livello di percezione di massa. Se pensi che addirittura Aphex Twin e Onetrix Point Never l’hanno praticamente saccheggiato si capisce l’impatto di costui sulla cultura popolare, per quanto a volte sia preso a modello a sproposito. Però onestamente non mi spiego perché lui si e Poulenc no. Una volta sono andato a Parigi al cimitero monumentale, e mentre sulla tomba di Jim Morrison c’erano fiori e lettere a tonnellate, sulla tomba di Poulenc c’era solo la polvere. È una questione di icone oppure gioca solo il caso?
Credo che il caso non c’entri. Credo che ciò che fa di Satie un “maestro” e un riferimento praticamente universale non sia solamente la sua musica, ma il suo essere un vero esempio di libertà espressiva. Satie tocca davvero l’essenza del suono e lo fa fregandosene di tutte le convenzioni e di tutte le regole. Eppure con una semplicità disarmante.

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Tornando al discorso compositivo/pianistico: perché tanto interesse generale per Satie e poco o nulla per autrici quali Germaine Tailleferre, che oltre ad essere nel "gruppo dei sei" ebbe anche contatti con Ravel? Ultimamente ci sono moltissime pianiste che cercano di modernizzare il concetto di classico, penso ad esempio a Magda Mayas. Quali sono le autrici femminili di oggi e di ieri che preferisci in ambito pianistico?
Non ho mai diviso l’umanità in maschi e femmine. Per me le persone sono persone. Non sapevo neanche che Germaine Tailleferre fosse una donna: per me era soltanto un’esponente del “gruppo dei sei”. Non voglio che questa mia affermazione sia scambiata per superficialità, al contrario vorrei sottolineareche auspico ad un futuro nel quale gli esseri umani siano considerati tali a prescindere da qualsiasi classificazione.

GermaineTailleferre, l’unica donna del “gruppo dei sei.”

Nonostante si capisca che sei legata a un immaginario “classicheggiante” sia dalle copertine dei dischi sia musicalmente, con fortissimi richiami a Debussy e Matisse, riesci comunque a flirtare con l’elettronica e gli altri strumenti senza rendere il tutto una pacchianata. In un certo senso si potrebbe dire che il tuo modo di intendere la classica è quello di una musica da camera dell’era di internet. È proprio con la rete infatti che sei approdata ad alcune delle collaborazioni più interessanti e quindi ai diversi “innesti”, ovvero quella con Roedelius e quella con Jaan Patterson. Come ti sei trovata a lavorare con loro?
La musica elettronica mi ha sempre affascinato perché apre infinite possibilità. Quando ero ragazzina, negli anni del conservatorio, amavo moltissimo Brian Eno. Mai avrei immaginato che tanti anni dopo avrei collaborato con Joachim Roedelius che proprio in quel periodo lavorava con lui. L’esperienza con Roedelius è stata molto interessante e profonda: ci ha uniti l’amore per la semplicità, uno spirito giocoso e curioso e la ricerca di un’essenza attraverso i suoni. Dal nostro incontro sono nati alcuni concerti in Italia e negli Stati Uniti e un album per l’etichetta Transparency dal titolo Sustanza di cose sperata. Jaan Patterson è un artista molto interessante che conosco solo attraverso internet e lo scambio di file musicali e qualche email. Eppure si è creata una grande intesa che ci ha permesso di collaborare alla sonorizzazione di un lavoro di Bataille e ad “Hologram of a dream”, il brano che conclude Above the Sky, il mio ultimo album.

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Un’altra cosa che noto è che alla fine la tua musica non ha grandi pretese se non quella di farsi ascoltare per quella che è, cioè un dialogo fra te stessa e il tuo mondo. Cosa abbastanza rara di questi tempi, dove spesso appare tutto calcolato o peggio “buttato là”, spacciandolo poi per qualcosa di “innovativo” o “perfetto”. Molti critici non sono in grado di entrare nel mondo di un artista ma tendono a tenersene fuori e a rifiutare una dimensione “individuale” delle cose, fatta ovviamente anche di passi falsi. Qual è il tuo rapporto con la critica del mondo classico, che non è certo acqua potabile?
Sono felice che hai colto questo aspetto: quando compongo non mi interessa essere “innovativa”, ma “sincera”. Penso che l’originalità risieda lì: nella capacità di mettersi a nudo in modo semplice. Ti sembrerà strano ma nonostante il mio essere fuori dai canoni accademici la critica del mondo classico ha sempre accolto favorevolmente i miei lavori. Le mie interpretazioni di Satie sono considerate di riferimento e anche le mie composizioni sono apprezzate, tanto che ho avuto modo di accostarle ad autori come Galuppi, Glass, e addirittura Stockhausen in un concerto al Quirinale. Poi sicuramente c’è anche chi non approva il mio approccio considerandolo magari troppo personale o troppo poco ortodosso. Ma per me la libertà viene prima di tutto: anche quella di non essere d’accordo.

Secondo te invece oggi la classica sdoganata alla classifica ha senso o è una volgarizzazione simile a quella dei sedicenti cantanti alla Amici? Voglio dire, gente come Allevi cosa può offrirci? Neanche a dire che porti all’approfondimento. In effetti però anche tu ti sei un po’ “macchiata” scrivendo "Fondanela" di Momo. Che ne pensi a proposito?
No no… prima di tutto vorrei chiarire che Fondanela non è una “macchia” ma solo un momento di gioco che ha preso forma in quella buffa canzoncina. Io e Momo siamo molto amiche e in quel periodo passavamo molto tempo insieme scherzando e ridendo di ogni cosa. Mai avrei pensato che quella canzone nata per divertirci tra noi sarebbe finita in televisione… È stato molto interessante vedere come le cose a volte prendano una loro strada senza la nostra volontà. Questa storia però non ha niente a che vedere con Allevi o i cantanti di Amici, dove penso ci sia una ferma decisione di entrare a far parte di certi meccanismi di mercato. Non ho niente in contrario, né mi va di giudicare le scelte di altri. L’importante è essere consapevoli di cosa si sta facendo.

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Alessandra Celletti suona se stessa, tratta dal disco con Roedelius.

Chiacchierando è uscito fuori che, in concerto, non ti interessa che il piano che suoni sia di pregio, ma tendi ad adattarti al “vissuto” dello strumento. Idea che condivido e che mi ricorda quali disconi epocali abbia prodotto questo approccio. Pensiamo al Koln Concert di Jarrett, capolavoro suonato su un pianoforte di merda neanche del tutto accordato. Come ti accorgi della personalità di uno strumento?C’è addirittura chi parla ai sintetizzatori quando non funzionano, per farli ripartire… puro animismo. Credi nella metempsicosi negli strumenti?
Sì certo… credo di essere un po’ animista anche io. Sono convinta che nei circuiti elettronici ci abitino piccoli esserini, a volte dispettosi. E gli strumenti acustici di sicuro hanno un loro centro vitale: il legno è un elemento “vivo” e un pianoforte di sicuro assume le caratteristiche di chi lo suona. Bisogna imparare a dialogare con il proprio strumento e a cercare di tirarne fuori il meglio, proprio come con gli esseri umani.

Parliamo ora proprio di esseri umani dietro il piano. Tempo fa ti è stato proposto di incidere i Klavierstucke di Stockhausen, cosa purtroppo abortita. Nelle note di copertina di una loro edizione, Stockhausen descrive tutti i cambiamenti di esecuzione dovuti allo stato del pianista: se mangiava pesante, oppure era seccato, oppure si sentiva felice, tutto avrebbe inciso sulla performance e quindi (se ricordo bene) ci si adoperava per metterlo a suo agio. Anche tu pensi che per una performance come si deve sia necessario sentirsi bene oppure c'è sempre un alone di casualità a prescindere nella riuscita di un'interpretazione?
Concordo con Stockhausen sul fatto che tutto incida sulla performance, ma andrei oltre: non è solo la condizione presente ad influenzare la performance, ma anche tutto quello che è accaduto giorni o addirittura mesi prima. Può accadere che ti affiori un subdolo senso di colpa per un cattivo pensiero che ti ha sfiorato chissà quando ed ecco lì che sbagli una nota. Siamo talmente complessi… ecco perché ho imparato a fregarmene dei sensi di colpa e anche delle note sbagliate.

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Tra l’altro so che non vai tanto pazza per Karlheinz… come mai?
Perché di pazzo ne basta uno: lui.

Ricollegandomi al Maestro tedesco a mio parere, a parte le possibilità melodico/armoniche, il pianoforte ha una forte aderenza al concetto di “rumore”, al concetto di “potenza”. In effetti è uno strumento percussivo e all’inizio non ebbe successo perché meno cristallino del clavicembalo. I Gerogerigegege, paladini del noise estremo giapponese, addirittura ci hanno fatto un intero disco solo col pianoforte.
Nel mio caso più che al concetto di “rumore” o di “potenza” il pianoforte si lega alla ricerca sul timbro. Il piano ha un potenziale infinito come la tavolozza di un pittore capace di miscelare i colori e di trarne mille sfumature diverse. Se si ha pazienza non si finisce mai di cercare.

I Gerogerigegege nella loro versione pianistico/deviata.

Un’ultima domanda. Cos’è per te la musica e dove credi andrà a parare quella del futuro? Qualche disco consigliato per chi voglia approcciarsi alla materia pianistica senza finire a sbadigliare?
La musica per me è la linfa vitale che ci permette di crescere e anche a volte di guarire… che sia classica o no. Consiglio tutto quello che c’è di Chopin suonato da Arturo Benedetti Michelangeli, le ultime Sonate di Beethoven (op. 109 e 111), Bach interpretato da Glenn Gould, e poi Janacek (Sul Sentiero di Rovi), Brahms (op.117 e 118), il mio amato Ravel (Gaspard de la Nuit, Jeux d’eau, Pavane…), Debussy (Preludes) e poi le Sonate di Schubert (l’op.120 è deliziosa). Se devo andare ancora avanti direi di ascoltare Fur Alina di Arvo Part e Dream di John Cage, naturalmente Satie (Gymnopedie e Gnossiennes). Mi devo fermare altrimenti non finisco più…

Ah cacchio, John Cage! Allora credi agli I ching anche tu?
Poiché credo a tutto, crederei anche agli I ching semmai riuscissi a capirci qualche cosa.

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Nel post precedente: La critica perde i pezzi