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Guida al Salento, la nuova Riviera Romagnola - Introduzione

Il Salento ha smesso da anni di essere una parte d’Italia come le altre ed è diventato un capitolo fondamentale del cursus honorum di ogni giovane italiano, un po’ come i weekend a Berlino, il precariato e gli attacchi di panico.

Foto di Alex Caroppi.

Il Salento ha smesso da anni di essere una parte d’Italia come le altre ed è diventato un capitolo fondamentale del cursus honorum di ogni giovane italiano, un po’ come i weekend a Berlino, il precariato e gli attacchi di panico.

Un tempo lontano dalle rotte del turismo, il Salento era una delle terre più belle, isolate e selvagge della penisola. Negli ultimi vent’anni però è salito alle luci della ribalta, conoscendo assieme al successo commerciale un crescente degrado del territorio a causa di un modello di business turistico liberamente ispirato alla Bibbia, capitolo invasione delle cavallette.

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Foto di Torre dell’Orso tratta da una pubblicità turistica.

Foto di Torre dell’Orso ad agosto. C’è ancora posto per un asciugamano in fondo a destra.

A livello di turismo giovanile i primi ad arrivare in Salento furono gli appassionati del Reggae che scendevano fino a Lecce affascinati dalle “canzoni” dei Sud Sound System e, più importante, inscimmiati dai mitologici racconti sull’erba albanese che secondo la leggenda fu per anni di discreta qualità (non ancora ammoniacata, bensì pelosetta e resinosa) e venduta a prezzi da terzo mondo (mille lire al grammo al dettaglio; in piazza della Luna, a Torre dell’Orso, dietro il frutta e verdura, da un tizio che si chiamava Toni. O almeno così dicono). Frutti collaterali dei traffici in corso all’epoca nel Canale d’Otranto.

L’erba che costava meno del tabacco. Una delle prerogative un tempo alla base del mito del Salento, e ormai persa.

Seguirono i Teknival dei punkabbestia con le carovane di camper che allora come adesso fanno venire il sangue agli occhi alla maggior parte dei salentini, per i quali la cura di sé e del proprio abbigliamento è seconda solo alla fede smisurata nelle virtù metafisiche del fritto.

Poi nacquero i club e i festival di elettronica e arrivò il successo della potente macchina mediatica della “Notte della taranta” (che tra le altre cose ha funzionato egregiamente come ascensore per la carriera dell’attuale ministro dei Beni Culturali Bray), un mega evento che ha finito per oscurare sugli organi di stampa tutta quella miriade di “situazioni” (come le chiamano qui) minori su cui il Salento ha costruito la sua fama nel Paese reale.

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Il concerto a sorpresa per il ventennale degli Africa Unite il 10 agosto a Sant’Andrea.

Sembra infatti più accettabile scrivere che mezza Italia si scapicolla in Salento ogni anno per sentire la versione pop di alcune danze contadine spaccamaroni che raccontare delle migliaia di persone che ballano musica fatte come lontre fino all’alba sulle spiagge e nei club.

Dancehall al Mamanera.

Il risultato è l’equazione che occupa le pagine dei giornali e descrive il Salento come terra bellissima, solitaria e contraddistinta dall’onnipresenza della pizzica.

La “bella gente” del Samsara a Gallipoli. Nessuna traccia di tamburelli e nemmeno di solitudine, se non esistenziale.

In realtà basta un’analisi che si avvalga di alcune avanzate tecniche investigative (tipo andare effettivamente a Lecce) per scoprire che in estate le spiagge del Salento sono diventate una specie di Rimini con il mare più bello, mentre le litoranee sono la versione estiva della vostra tangenziale cittadina preferita. Di solitario e selvaggio in questo periodo dell’anno non rimane proprio nulla.

Però sta facimu li sordi cumpà.

In compenso è possibile evitare i concerti di pizzica con una certa facilità, basta cambiare strada ogni volta che si incontrano quattro macchine targate Milano parcheggiate una accanto all’altra.

Questo interesse del resto d’Italia per una parte del Paese dove fino a pochi anni fa il concetto di divertimento era raccogliere olive e tabacco, sintetizzare friselle dentro camper nel deserto, intrecciare cestini

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o essiccare pomodori

è una cosa che i salentini non hanno ancora capito appieno, un po’ come il tuo vicino sociopatico che saluti una volta per cortesia e da lì in poi pretende di essere per sempre il tuo migliore amico.

Sarà per via delle canzoni scioviniste dei Sud Sound System o per la quantità psicoattiva di zuccheri nei cornetti, ma è come se l’apprezzamento per il mare, i borghi dissestati e le feste debba necessariamente trasformarsi in una sorta di dichiarazione di superiorità morale e antropologica del popolo salentino tutto. Negli anni tutto ciò ha creato presso queste genti un tempo accoglienti e bonaccione il culto del Pansalentinismo.

Tale fenomeno è sintetizzato anche dalla maglietta di ispirazione calcistica ”Salento 12” e dal famoso slogan “Lu sule, lu mare, lu ientu” che qui vediamo portato avanti sulla gamba di una milanese, come noto la metà della mela dei più tamarri fra i salentini.

Il Pansalentinismo porta anche a interessanti esperimenti di segnaletica trilingue.

Italiano/salentino/inutile dialetto straniero.

La lingua qui è una cosa importante. Non a caso la più comune manifestazione del Pansalentinismo in cui tutti sono incappati almeno una volta è lo sguardo deduttivo-a fessura ogni volta che aprite bocca senza esprimervi nell’idioma locale o senza trascinare le vocali finali delle parole come se fossero le spoglie di Ettore attorno alle mura di Troia.

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Allo sguardo di derivazione sherlock-holmesiana segue ditino puntato e un sagace “Ah-ah ma tu non sei di qua.”

Brillante deduzione, caro Lu Watson. Un rituale che sia io che il fotografo che mi accompagna conosciamo bene per via della lunga frequentazione del territorio, dovuta al fatto che abbiamo entrambi un genitore salentino. Avere qui legioni di zii, zie, cugini e parenti di quei gradi che esistono solo a sud di Roma non ci dispensa ogni volta che apriamo la bocca dall’essere catalogati di default come “milanesi”, categoria che qui indica tutti gli italiani del nord, un po’ come “barbari” indicava tutti non-greci nell’età classica. Fa niente che nessuno di noi, compreso il nostro prezioso assistente, il dottor Pingue, venga da Milano.

Pizzica? Mai sentita nominare.

Un tempo questo riconoscimento di alterità apriva quasi sempre a un’ospitalità oggettivamente mitologica; oggi, come in tutti i posti turisticamente affermati, prelude altrettanto spesso a un “vai a pure a fare il bagno, intanto mostro a tua moglie dov’è la camera da letto.”

Interessante anche il fatto che il Pansalentinismo non sia una prerogativa di chi nasce, cresce e vive in Salento, ma sia radicato anche in persone fulminati di Pinerolo o Brescia che vengono qui ogni anno per una settimana. Il loro refrain è all’incirca “Solo in Salento mi sento a casa e accettato per quello che sono, sine moi a quai. Pota.”

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Un’interessante dimostrazione empirica di questo fenomeno è che quando nei concerti reggae (l’ambiente dove il pansalentinismo ha carattere di tirannica religione di Stato) il cantate chiede ai turisti di alzare una mano se ne alzano giusto due o tre di gente che non ha capito che cazzo stia sbraitando il tizio in quella lingua assurda dove una parola su due finisce per u.

Tutto questo a fronte di un’accoglienza del turismo di massa non proprio simile a quella che trovereste in Romagna.

Altro fenomeno figlio del Pansalentinismo è il proliferare di sagre di prodotti tipici, alcune delle quali così frequentate da sfornare una quantità di “prodotto tipico” talmente mostruosa che non sarebbe producibile in loco nemmeno se il Salento avesse la superficie degli Urali. Tuttavia le sagre rendono bene e piacciono un sacco a locali e turisti, per cui ogni anno ce n’è una nuova, alcune senza timore del ridicolo.

Salento ad agosto, terra di grandi bellezze naturali, autonomismo, ingorghi e spiagge dove per i primi dieci metri l’acqua è talmente tiepidina che ti fa riflettere sulle contraddizioni di una società dove devi conoscere i film e i libri preferiti delle persone con cui fai sesso, ma è perfettamente normale sguazzare nell’urina, seppur diluita, di persone a cui non dirai neppure ciao.

Quest’estate abbiamo girato questa regione in lungo e in largo per darvi conto dei maggiori tipi di intrattenimento danzante eseguito con supporto meccanico (da definizione al passo coi tempi della SIAE) a cui potreste puntare se decideste di passare le vacanze da queste parti—esclusa ovviamente la taranta, della quale, per usare un eufemismo, non ce ne frega un cazzo.

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Al tempo stesso abbiamo cercato anche di capire, a fronte al marketing turistico, alla speculazione edilizia e al fiume di denaro che ha investito in pochi anni una terra prima poverissima, quanto sia rimasto del fantastico “spirito salentino” di cui la vostra amica studentessa universitaria vi ha narrato entusiasta al suo ritorno prima di scoprire di essere rimasta incinta di tale Brizio al cui numero di telefono ora risponde una rosticceria di Tirana.

Essendo impossibile—oltre che insensato—coprire tutti gli eventi, abbiamo lavorato a campione su quanto abbiamo ritenuto più rappresentativo, scegliendo posti con una programmazione lunga piuttosto che i festival e scontrandoci regolarmente con l’incapacità patologica/ostilità degli organizzatori (ad esclusione del Mamanera) nei confronti di VICE. Un atteggiamento peraltro molto lungimirante quando hai a che fare con noi che non siamo per nulla vendicativi.

Per questo, a meno che non siate in grado di fornirci il dono dell’ubiquità non lamentatevi nei commenti se non abbiamo coperto il compleanno di vostro cugino in pizzeria a Galatone o il karaoke con Albano e i Kiss a Porto Cesareo.

Con nostro enorme disappunto, appena giunti in Salento scopriamo di essere arrivati troppo tardi per la Sagra te Lu Ranu, qualsiasi cosa essa sia.

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Altro dal Salento qui. Altri posti in cui siamo stati:

Dentro il Redentore, la vera festa di Venezia

Il festival del bottiglione